In attesa del vaccino, apprendiamo dall’esperienza per battere il ritorno (eventuale) del Coronavirus
di Fausto Fantò
e Germana Zollesi |
L’esperienza del coronavirus obbliga a rileggere l’approccio alla medicina di fronte a problemi imprevisti. L’antecedente è stata la “Spagnola”, un secolo fa, e il DNA medico non era pronto. Malattie infettive si sono sempre manifestate, ma potevano essere gestite da pochi professionisti altamente specializzati, per gli altri, al più rappresentava una complicanza da affidare al collega. All’opposto, il Coronavirus ci ha colto di sorpresa e all’inizio è stato un susseguirsi di ipotesi e di supposizioni. Alcuni hanno anche affermato di aver notato la presenza di polmoniti anomale già negli ultimi mesi del 2019, peccato non ne abbiano fatto menzione. E sono queste affermazioni che fanno riflettere sul ruolo e sul comportamento scarsamente propenso all’osservazione clinica a favore di una sorta di “meccanicismo
cibernetico” basato sui protocolli dettati dalla medicina difensiva e dalla professionalità compartecipata.
La medicina basata sull’evidenza (Evidence Based Medicine – EBM) che si è sviluppata a partire dai primi anni Novanta, fonda le sue basi sulle prove di evidenza e “l’uso cosciente, esplicito e giudizioso delle migliori evidenze (cioè prove di efficacia) biomediche al momento disponibili, al fine di prendere le decisioni per l’assistenza del singolo paziente”. Ciò ha portato ad una medicina eccessivamente basata su regole rigide e su protocolli precisi, compatibile per una medicina altamente tecnologica e parcellizzata, quanto poco incline ad offrire spazio all’osservazione e all’esperienza del singolo operatore. Dunque, una medicina che si è trovata impreparata ed inadeguata di fronte ad un evento nuovo ed inaspettato. Di conseguenza, ai primi pazienti affetti da Covid-19, in assenza di un “manuale” di comportamento, si è assistito ad un fiorire di alternative.
Il saper immaginare soluzioni diverse è sintomo di intelligenza e vivacità culturale e l’importanza dell’esperienzialità permette di raggiungere velocemente maggiore efficacia nell’erogare le cure. È quello che è accaduto nei primi mesi di pandemia: si sono cercate soluzioni e le riflessioni successive sulle reazioni dei pazienti hanno permesso di costruire percorsi diagnostico-terapeutici maggiormente validi ed efficaci. Oggi non si dispone ancora del vaccino, i protocolli devono ancora essere perfezionati, ma ogni medico si è impegnato nell’interpretare i soggetti che gli si presentano. Parafrasando il detto “medico cura te ipse”, è necessario, anche per una questione di credibilità, che la sanità effettui un’indagine introspettiva per verificare se riesce ad eliminare ogni comportamento dannoso verso quei soggetti che s’impegna a prendere in carico nel tentativo di restituire loro buone condizioni di salute. Muovendosi dall’analisi degli stessi luoghi di cura, si ricava come il ricovero in un ambiente ospedaliero venga spesso interpretato come una maggiore complicanza (rischio di infezioni, sindrome da immobilizzazione e spesso perdita dell’autosufficienza) per i soggetti, specialmente se anziani, oltre che un impiego di risorse per la struttura e, quindi, si tende a ridurla al minimo necessario.
A questa osservazione fa da contrasto l’atteggiamento di chi interpreta ancora le strutture sanitarie come luogo di “deposito” di persone con problemi di salute, mentre la riabilitazione rappresenta spesso un’attività residuale. Periodicamente si è assistito ad un abbandono dei pazienti da parte dei famigliari presso i Pronto Soccorso ospedalieri o comunque un generale disinteresse verso le persone che soffrono, nonostante siano persone legate da vincoli affettivi. Del resto, negli ultimi decenni si è registrato un aumento dei tempi di degenza legato sia alla complessità clinica di pazienti sempre più anziani, sia al “disimpegno” stesso dei famigliari, che tendono a scaricare sulle strutture ospedaliere i loro “cari”, delegando al servizio pubblico anche quella parte di competenza che dovrebbe essere a carico della famiglia.
Il Coronavirus, con i suoi effetti nefasti, ha imposto in tutti noi una presa di coscienza: la salute non è un bene che si può comprare al supermercato. In altri termini, è una condotta di vita contrassegnata da una costante applicazione delle norme igieniche. Norme che per quanto il medico possa consigliare e imporre, se deprivate di una coscienza generalizzata volta ad accrescere l’aderenza delle prescrizioni, rischiano di rimanere lettera morta. Questa esperienza deve far ripensare ad una sanità che privilegi il territorio ed in primis il proprio domicilio come luogo di cura. Aver trascurato (si legga “abbandonato”) la medicina del territorio, come è stato privilegiato da alcune aree del Paese, nell’illusione che algoritmi sofisticati uniti all’alta tecnicizzazione potessero da soli curare i pazienti, si è rivelato deleterio allo scoppio della pandemia.
Superata la fase dell’emergenza oggi si cerca di prepararci ad un’eventuale seconda ondata. Si riempiono a dismisura i magazzini, non perché convinti della loro utilità, ma per superare quel senso di impotenza che deriva quando si affronta un nemico subdolo qual è un’epidemia (lasciando spazio a sprechi e speculazioni). In realtà, l’efficacia del contrasto non deriva dalla saturazione dei depositi, ma dall’applicazione delle norme. Per esempio, a ridurre le possibilità di contagio sarebbe sufficiente mantenere con rigore le distanze nelle code (anche quelle che si formano per entrare negli ospedali). Morale: il Coronavirus sembra insegnare che non è solo indispensabile predisporre reparti di emergenza “mai utilizzati” o “riempire i magazzini” di merci dall’incerto utilizzo o erogare cure senza limiti per poter affermare che si è fatto tutto il possibile. Occorre che il sistema e i professionisti che in esso vi operano, sappiano gerarchizzare gli interventi in base alla loro provata efficacia e facciano partecipi di questa razionalità tutti i livelli organizzativi. Forse questo è il modo più efficace per affrontare la pandemia. All’inizio 2020 la società nel suo insieme non era pronta. Domanda di rigore: ora lo è?
Posted on: 2020/09/11, by : admin
La medicina basata sull’evidenza (Evidence Based Medicine – EBM) che si è sviluppata a partire dai primi anni Novanta, fonda le sue basi sulle prove di evidenza e “l’uso cosciente, esplicito e giudizioso delle migliori evidenze (cioè prove di efficacia) biomediche al momento disponibili, al fine di prendere le decisioni per l’assistenza del singolo paziente”. Ciò ha portato ad una medicina eccessivamente basata su regole rigide e su protocolli precisi, compatibile per una medicina altamente tecnologica e parcellizzata, quanto poco incline ad offrire spazio all’osservazione e all’esperienza del singolo operatore. Dunque, una medicina che si è trovata impreparata ed inadeguata di fronte ad un evento nuovo ed inaspettato. Di conseguenza, ai primi pazienti affetti da Covid-19, in assenza di un “manuale” di comportamento, si è assistito ad un fiorire di alternative.
Il saper immaginare soluzioni diverse è sintomo di intelligenza e vivacità culturale e l’importanza dell’esperienzialità permette di raggiungere velocemente maggiore efficacia nell’erogare le cure. È quello che è accaduto nei primi mesi di pandemia: si sono cercate soluzioni e le riflessioni successive sulle reazioni dei pazienti hanno permesso di costruire percorsi diagnostico-terapeutici maggiormente validi ed efficaci. Oggi non si dispone ancora del vaccino, i protocolli devono ancora essere perfezionati, ma ogni medico si è impegnato nell’interpretare i soggetti che gli si presentano. Parafrasando il detto “medico cura te ipse”, è necessario, anche per una questione di credibilità, che la sanità effettui un’indagine introspettiva per verificare se riesce ad eliminare ogni comportamento dannoso verso quei soggetti che s’impegna a prendere in carico nel tentativo di restituire loro buone condizioni di salute. Muovendosi dall’analisi degli stessi luoghi di cura, si ricava come il ricovero in un ambiente ospedaliero venga spesso interpretato come una maggiore complicanza (rischio di infezioni, sindrome da immobilizzazione e spesso perdita dell’autosufficienza) per i soggetti, specialmente se anziani, oltre che un impiego di risorse per la struttura e, quindi, si tende a ridurla al minimo necessario.
A questa osservazione fa da contrasto l’atteggiamento di chi interpreta ancora le strutture sanitarie come luogo di “deposito” di persone con problemi di salute, mentre la riabilitazione rappresenta spesso un’attività residuale. Periodicamente si è assistito ad un abbandono dei pazienti da parte dei famigliari presso i Pronto Soccorso ospedalieri o comunque un generale disinteresse verso le persone che soffrono, nonostante siano persone legate da vincoli affettivi. Del resto, negli ultimi decenni si è registrato un aumento dei tempi di degenza legato sia alla complessità clinica di pazienti sempre più anziani, sia al “disimpegno” stesso dei famigliari, che tendono a scaricare sulle strutture ospedaliere i loro “cari”, delegando al servizio pubblico anche quella parte di competenza che dovrebbe essere a carico della famiglia.
Il Coronavirus, con i suoi effetti nefasti, ha imposto in tutti noi una presa di coscienza: la salute non è un bene che si può comprare al supermercato. In altri termini, è una condotta di vita contrassegnata da una costante applicazione delle norme igieniche. Norme che per quanto il medico possa consigliare e imporre, se deprivate di una coscienza generalizzata volta ad accrescere l’aderenza delle prescrizioni, rischiano di rimanere lettera morta. Questa esperienza deve far ripensare ad una sanità che privilegi il territorio ed in primis il proprio domicilio come luogo di cura. Aver trascurato (si legga “abbandonato”) la medicina del territorio, come è stato privilegiato da alcune aree del Paese, nell’illusione che algoritmi sofisticati uniti all’alta tecnicizzazione potessero da soli curare i pazienti, si è rivelato deleterio allo scoppio della pandemia.
Superata la fase dell’emergenza oggi si cerca di prepararci ad un’eventuale seconda ondata. Si riempiono a dismisura i magazzini, non perché convinti della loro utilità, ma per superare quel senso di impotenza che deriva quando si affronta un nemico subdolo qual è un’epidemia (lasciando spazio a sprechi e speculazioni). In realtà, l’efficacia del contrasto non deriva dalla saturazione dei depositi, ma dall’applicazione delle norme. Per esempio, a ridurre le possibilità di contagio sarebbe sufficiente mantenere con rigore le distanze nelle code (anche quelle che si formano per entrare negli ospedali). Morale: il Coronavirus sembra insegnare che non è solo indispensabile predisporre reparti di emergenza “mai utilizzati” o “riempire i magazzini” di merci dall’incerto utilizzo o erogare cure senza limiti per poter affermare che si è fatto tutto il possibile. Occorre che il sistema e i professionisti che in esso vi operano, sappiano gerarchizzare gli interventi in base alla loro provata efficacia e facciano partecipi di questa razionalità tutti i livelli organizzativi. Forse questo è il modo più efficace per affrontare la pandemia. All’inizio 2020 la società nel suo insieme non era pronta. Domanda di rigore: ora lo è?
Posted on: 2020/09/11, by : admin