Kazakistan e Bielorussia: il sogno imperiale di Putin

di Maurizio Jacopo Lami |

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«Putin vuole ricostruire l’Impero sovietico, e gli alleati occidentali devono impedirlo. Interviene con violenza in Kazakistan tanto perché vuole tenere in piedi un regime amico, quanto perché teme le ripercussioni interne che la sua caduta avrebbe in Russia». Il commento è di Wesley Clark, ex comandante della Nato.

L’uomo stava morendo. Era su un misero giaciglio, nel freddo spaventoso dell’inverno russo. Un compagno di prigionia si avvicinò e poté udire le sue ultime parole in ceceno : «Che sia maledetto Stalin! E che bruci tutta la dannata terra del Kazakistan!»


Il Kazakistan, enorme paese nel cuore dell’Asia meno conosciuta dagli occidentali, e forziere di enormi ricchezze minerarie, è colpito da una violenta rivolta che ha spinto il Cremlino a intervenire con truppe speciali (soprattutto paracadutisti) e mezzi blindati. I morti sono decine, se non centinaia e il governo locale parla di «infiltrati stranieri». E gli Stati Uniti sono preoccupati per l’ostentato intervento di Putin. Ma perché il Kazakistan è così importante per tutti? Qual è la storia di questo misterioso e remoto Paese?

Il Kazakistan, terra remota come la Luna agli occhi di noi occidentali, con deserti immensi e favolose ricchezze, utilizzata senza pietà da Mosca per i primi esperimenti atomici, inquinata e devastata a un livello tale da far dubitare della razionalità dell’uomo, è in queste ore tragico teatro di una latente guerra civile e allo stesso tempo dell’aperto intervento, gravido di enormi conseguenze politiche, delle forze armate russe.

Ma perché improvvisamente questa nazione che da ben trent’anni è sotto il giogo del dittatore di pura marca brezneviana Nursultan Nazarbaev (personaggio dall’ego smisurato, che nel 2019 ha ribattezzato la capitale Astana, nella foto, Nur-Sultan) è in preda alla guerra civile, quasi una nuova Siria?

Nazione di spazi infiniti e di infinite sofferenze, il Kazakistan è un vero e proprio eldorado di materie preziose: possiede il 90 per cento delle riserve del territorio ex sovietico di cromo e circa la metà di quelle di piombo, rame e zinco. Questa favolosa ricchezza ha paradossalmente portato tante disgrazie alla sventurata nazione che da sempre, pur essendo di grande importanza, sfugge ai radar dell’opinione internazionale.

Mosca ha sempre visto il Kazakistan come un Giano bifronte: da una parte una terra ricchissima di prodotti (fra cui il cotone di cui parleremo tra poco per i suoi tragici sviluppi) dall’altra un luogo remotissimo, perfetto per spedire intere popolazioni «scomode» a morire lontano dagli occhi di tutti.

Capitò coi tedeschi del Volga, durante la Seconda guerra mondiale: vivevano in Russia fin dai tempi di Caterina la Grande (cioè dal Settecento), erano «più russi dei veri russi», ma il terrore che diventassero una Quinta Colonna (definizione con cui si intende un gruppo di traditori venduti al nemico: l’espressione nacque ai tempi della guerra civile spagnola) convinse il Cremlino a deportarli in Kazakistan. Avvenne lo stesso con i Ceceni che nel 1944 in una sola notte all’improvviso vennero portati in terra kazaka: ancora oggi ne maledicono il nome, tanto vi soffrirono.

Altra «maledizione», quella del cotone: è fra le principali risorse del vicino Uzbekistan, con percentuali prodotte ed esportate tra le più alte del mondo tanto da venir definito «oro bianco». E allora perché definirlo una maledizione? La risposta è nell’impressionate distruzione ecologica del Lago d’Aral. Durante la Guerra fredda il regime sovietico mise in atto un piano per deviare il corso di due fiumi che si immettevano nel lago, così da irrigare i campi e poter coltivare in maniera intensiva il cotone che nasceva nella limitrofa area arida dell’Uzbekistan. A causa dell’evaporazione naturale e della sensibile riduzione della portata di immissione di acqua, il lago ha cominciato quindi inesorabilmente a prosciugarsi.

Poi per aggiungere disastro a disastro (sì, sembra proprio una maledizione biblica) l’utilizzo insensato dei diserbanti ha prodotto una contaminazione irreversibile del lago. Le polveri inquinanti a causa delle frequenti tempeste di sabbia vengono trascinate a centinaia di chilometri di distanza rendendo sterili e inquinate le terre su cui si depositano.

A questo quadro disperante si aggiunge la lunga e proficua carriera del dittatore Nazarbaev, in un certo senso da manuale: dirigente importante durante l’ultima fase dell’Unione Sovietica, riesce nel 1989 a imporsi come presidente e, quando nell’agosto 1991 crolla il comunismo, si ricicla in un attimo come nazionalista. Da lì comincia un’inarrestabile e interminabile serie di elezioni truccate che passano sotto silenzio tra l’opinione pubblica occidentale per la sua abilità nel presentarsi come un baluardo contro il terrorismo islamico. Invecchiato (è nato nel 1940) e stanco, soprattutto pressato dalle proteste sempre più vigorose dei kazaki, ha “rassegnato” due anni fa le dimissioni, restando però dietro le quinte del potere.

Il governo attuale ha deciso di cancellare il tetto massimo stabilito per il prezzo del Gpl: una mossa che ha subito innescato una raffica generalizzata di aumenti e favorito l’occasione per una rivolta che, come si intuisce, ha tante altre ragioni: moltissimi kazaki vogliono rovesciare lo status quo, cancellare trent’anni di oppressione e di assoluta indifferenza per il peggioramento della vita generale. Così la rivolta al grido «Basta col vecchio» (Nazarbaev naturalmente) vuole essere il motto di un’autentica rivoluzione.

Putin non ha perso un minuto e ha mandato truppe scelte non solo per «ristabilire l’ordine» ma anche per dare un segno chiaro ed inequivocabile: l’impero russo sta tornando, i vari pezzi del puzzle postsovietico si ricompongono. Da parte sua, il governo ha provveduto ad arrestare il capo dell’intelligence quasi a voler confermare esistenza di una cospirazione non solo interna, quanto eterodiretta da forze straniere. Il sogno, per nulla celato, è di ricreare il grande impero del 1991 rimettendo insieme oltre a tante nazioni minori il Kazakistan con i suoi immensi spazi e le sue fantastiche doti di materie prime, l’Ucraina, anch’essa stato grande e ricco, e la Bielorussia, porta dell’Occidente.

A ulteriore prova del grandioso progetto di Mosca, anche la Bielorussia non nasconde nemmeno più di considerare la Russia di Putin come il grande alleato che gli consentirà di sconfiggere la grande opposizione democratica. Opposizione che tra il 2020 e il 2021 ha intrepidamente sfidato il dittatore Lukashenko, riempiendo le piazze, creando giornali liberi, subendo una terribile repressione. Il bilancio è di almeno 12.000 arresti, 6 morti accertati (ma sono di più, purtroppo), più di cinquanta persone scomparse nel nulla e soprattutto tantissimi oppositori costretti a fuggire all’estero. Tutti i membri pubblici del Consiglio di coordinamento dell’opposizione bielorussa sono oggi in esilio o in prigione.

In Bielorussia ormai chiunque osa criticare Lukashenko viene arrestato, spesso con motivazioni del tutto inventate. Ma nemmeno questo sembra domare un’opposizione quanto mai vigorosa che utilizza fra l’altro con grande abilità i mass media internazionali. Putin vede in questa situazione l’occasione di portare «fraterno aiuto» nel Paese – secondo l’antico stile dell’Unione Sovietica di Krusciov e Breznev con le invasioni d’Ungheria, di Cecoslovacchia e di Afghanistan, cioè inviare truppe per legare per sempre la Bielorussia a Mosca. Insieme all’Ucraina dove conta di poter instaurare un governo amico grazie alla minaccia delle sue forze armate. L’ambiziosa strategia di Putin sembra davvero potersi compiere. Il 2022 si annuncia dunque un anno di grandi svolte.




Posted on: 2022/01/08, by :