La Juventus ammaina una mitica bandiera: è morto Giampiero Boniperti

di Michele Ruggiero |

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Un grande calciatore del passato è morto stanotte. Con il suo nome, Giampiero Boniperti, si scrive la storia del calcio italiano. Avrebbe compiuto 93 anni il prossimo 4 luglio. Presidente onorario della Juventus, ha rappresentato più di un’epoca, con ruoli diversi della società calcistica.

Scrivere di Giampiero Boniperti è come addentrarsi in una piccola enciclopedia popolare e ritrovarsi ad avere soltanto l’imbarazzo della scelta nel pescare dall’immenso campionario dell’aneddotica. Un imbarazzo da cui deriva poi il pericolo di aggrovigliare i ricordi per tenere insieme l’uomo, il calciatore, il dirigente sportivo, il politico, e finire così nel labirinto ansiogeno della memoria.

Calciatore di talento, in nazionale nel 1947, debutto al Prater di Vienna, quando non si nasceva ancora, ci disse un giorno, “con il passaporto in tasca”. Boniperti era nato benestante a Barengo in provincia di Novara nel 1928, padre Podestà, famiglia maggiorente, e sarebbe diventato ricco di suo, ma sempre all’ombra della discrezione, rifuggendo dall’ostentazione. L’aneddoto più divertente, ripetutamente citato è quello del premio che l’avvocato Gianni Agnelli gli aveva promesso per ogni goal realizzato: una vacca delle numerose tenute agricole della Famiglia. Boniperti sceglieva sempre quella gravida. Quando chiuse la carriera, nel 1961, da campione d’Italia, si limitò a consegnare le scarpette al magazziniere del Comunale a mo’ di commiato. E nessuno lo rivide più su un terreno di gioco. Credeva nella chiusura di un ciclo per poterne aprire un altro. E l’idea di partite con le “vecchie glorie” non si coniugava con la sua visione del presente e del futuro.

Elegante nel gioco, di un’eleganza amplificata dai suoi lineamenti delicati e dal biondo dei suoi capelli: un piccolo dio in campo che rispettava l’avversario sempre a patto che l’altro rispettasse lui. Salvo alcune (troppe, secondo i suoi detrattori) eccezioni da dirigente, quando gli interessi della Juventus prevalevano sul resto o non coincidevano con gli interessi generali. Il che per Boniperti era giustificato dalla forza della squadra e dal potere della società: un combinato disposto da cui è difficile emanciparsi.

In campo, invece, quando il gioco si faceva duro, la soavità dei suoi lineamenti si trasfigurava e Boniperti, restio a seguire i precetti evangelici, non porgeva mai l’altra caviglia. Anzi, da autentico “cattivo” non lasciava mai nulla in sospeso, ma preferiva saldare i conti come si risolve una vendetta, “un piatto da gustare freddo”, non appena era fuori dai radar di arbitro e guardalinee. E con il suo aspetto angelico, la presunzione di innocenza gli era sempre assicurata, in assenza di televisione, moviola e quant’altro. Questione di immagine. Di rimando, Benito Lorenzi, interista, detto “veleno”, non volle venire meno alla sua fama e bollò Boniperti con il soprannome di “Marisa”. Un’irriverenza goliardica – tra compagni di nazionale, peraltro – che giovò più a Boniperti, perché gli permise di verificare quanti davvero in campo erano disposti a mettersi contro di lui e la Juventus… Un codice di verifica che avrebbe applicato anche nella vita, come tutti coloro che sono innamorati del Potere.

Boniperti ha rappresentato molto e molto ha vinto e contato nel mondo del calcio della seconda parte del Novecento. Un secolo da lui attraversato nel segno della Vecchia Signora, della Juventus: il suo grande amore, in cui lealtà e devozione alla maglia sono andati di pari passo al suo successo sportivo e personale. La Juventus su tutto e con tutto ciò che ne conseguiva, in primis la Famiglia Agnelli. Un rapporto vissuto in modo complessivamente equilibrato (cosa rara) con entrambi i fratelli, Gianni e Umberto.

Il primo conosciuto ad inizio carriera, l’altro divenuto il presidente dalla seconda metà degli anni Cinquanta, costruttore di una Juventus di cui si potrà dimenticare anche il numero di scudetti vinti, ma non il mito cresciuto attorno ai nomi di Omar Sivori, John Charles e dello stesso Boniperti, un trio di meraviglie. L’Avvocato lo avrebbe ritrovato, dopo un serio apprendistato alla Sisport, emanazione Fiat in campo sportivo, negli anni Settanta, chiamato al timone della Juventus da amministratore delegato e poi presidente. Quella fu la Juventus della rinascita che spezzò il monopolio di Milano e rimise in discussione l’egemonia di Milan e Inter, che si rifletteva anche in campo internazionale con i primati in Coppa dei Campioni e in Coppa Intercontinentale.

E fu anche la Juventus la cui ossatura sarebbe stata trapiantata in azzurro dall’allora commissario tecnico Enzo Bearzot ai Mondiali di Argentina (una stupenda nazionale) e nel 1982 ai Mondiali di Spagna, quelli del trionfo allo stadio Santiago Bernabeu di Madrid, davanti al presidente della Repubblica Sandro Pertini. Di quel titolo c’era anche qualcosa di Boniperti, forse trascurato, non fosse altro per lo stile e il comportamento sobri, discreti, mai sopra le righe, maturati all’interno della sua gestione da quei giocatori-pilastro su cui Bearzot avrebbe puntato per creare coesione e energie positive nello spogliatoio del club Italia: Zoff e Scirea, Tardelli, Cabrini, Paolo Rossi, Gentile. Uomini veri.

Come Giampiero Boniperti, uomo vero anche nei suoi tratti prepotenti da calciatore e arroganti da dirigente che facevano da battistrada alla sua faziosità mai nascosta (e mai volutamente curata), ai suoi preconcetti, al suo spirito classista, che oggi però, nell’ultimo saluto ad un grande campione, guardiamo con la nostalgia che si deve ad un calcio che eri portato ad amare, perché ancora accessibile alla normalità.




Posted on: 2021/06/18, by :