La scelta di resistere del partigiano come cambiamento esistenziale

di Giuseppe D’Agostino |

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Con questo articolo dello psicoanalista Giuseppe D’Agostino la Porta di Vetro apre la Celebrazione del 25 Aprile, 75° anniversario della Liberazione.

La Resistenza – l’agire di chi scelse di combattere il nazifascismo – fu, anche, un processo di maturazione soggettiva. Possiamo cogliere questo aspetto nelle pagine de Il partigiano Johnny, il romanzo dello scrittore partigiano Fenoglio. L’epos del protagonista è un viaggio nella formazione del proprio Sé. Inizia con il giovane militare imboscato, dopo l’8 settembre, che dal suo isolamento comincia a sentire un rancore rabbioso per fascisti e tedeschi. E sente, anche, la miseria della sua condizione: “Io non sono un uomo”, ripeterà più volte. Sarà l’incontro con il suo professore di filosofia, Pietro Chiodi, a indicargli la strada. Questi, citando il filosofo Kierkegaard, dirà: “Da una parte l’angoscia, è vero, ti ributta sul tuo essere, e te ne viene amarezza, ma d’altra parte essa è il necessario “sprung”, cioè salto verso il futuro”. L’angoscia può divenire possibilità di scelta; e Johnny farà la sua: lascerà la casa dell’imboscamento per il viaggio verso la montagna; sarà questo il suo rito di passaggio.

Utilizzando la prospettiva della psicoanalisi, ritengo utile una riflessione sulla Resistenza che possa includere, insieme alle motivazioni prettamente storiche, anche un’analisi del significato esistenziale che la scelta di resistere ebbe per i molti giovani, uomini e donne, che si opposero al fascismo. In molte delle loro autobiografie si riscontra, esplicitamente o implicitamente, un tratto comune precipuo: la scelta di resistere fu collegata con il bisogno di liberazione e, al tempo stesso, con il bisogno di trasformare la propria realtà interiore, la propria esistenza.

A parte gli antifascisti “maturi – quelli che possedevano una coscienza politica forte – la maggioranza dei partigiani fu composta da ventenni senza una vera coscienza politica ab initio. Erano nati durante il Ventennio fascista, non avevano conosciuto che la dittatura mussoliniana, ma non lo sapevano, perché non possedevano il metro di paragone della democrazia. A smuovere le loro esistenze fu la catastrofe dell’8 settembre che svelò, di colpo, il fallimento di tutti i riferimenti, concreti e simbolici, della vita sociale e individuale: la Patria, il Re, il dittatore, l’Esercito. In sintesi, vennero meno le strutture che reggevano e organizzavano le identificazioni individuali e collettive. Il caos spinse ciascuno a fare una scelta: ci furono quelli che si nascosero, quelli che passarono alla Resistenza e quelli che restarono fedeli al fascismo.

Falco Marin era un militare. Nato nel 1919, morirà il 25 luglio del 1943 – il giorno stesso della caduta del fascismo – ucciso dai partigiani sloveni. È fascista (è cresciuto nella dittatura) e gli è stato affidato il compito di eliminare i ribelli. C’è, però, un elemento imprevisto: quei ribelli che resistono gli trasmettono un turbamento che non comprende. Così scrive nel suo diario: “Con tanto ardore si battono per qualcosa che mi sfugge, ma certamente porterà alla morte di tutti loro o alla loro libertà […]. Lui [il ribelle] va nel bosco, solo con un fucile, vive non si sa come, ma sicuro più che se stesse a casa. E noi che andiamo incontro a prenderlo, subiamo il suo fascino e ci lasciamo colpire senza riuscire mai a raggiungerlo […]. Ancora siamo forti da poterli ammazzare tutti; ma la loro forza sta in una nostra strana perplessità” .

Ciò che turba Marin – la “strana perplessità” – è che l’agire del ribelle, implicitamente, riguarda anche lui, perché ha a che fare con la spinta a essere libero. Sente una tensione interiore: la ribellione gli è estranea (il suo fascismo la contrasta) e, al contempo, gli è inconsciamente familiare. Marin morirà prima dell’8 settembre, ma possiamo pensare che il crollo dei simboli del fascismo diede a moltissimi altri giovani come lui – che percepivano gli stessi turbamenti e ai quali non sapevano ancora dare un nome – l’occasione di sentire la crisi del loro “regime interno” e di iniziare a cercare, attraverso il processo del resistere, un nuovo ordine esistenziale.

E quelli che, invece, dopo l’8 settembre restarono fedeli al fascismo? Costoro, attraverso una reazione molto spesso feroce, agirono per non sentire il dolore del fallimento, per cercare di tenere in vita, in una maniera fanatica, un mondo fatto di simboli e di identificazioni che, in realtà, era crollato. È un dato storico che la violenza nazifascista fu terrificante in maniera smisurata e che questa fu aderente alla cultura e all’ideologia di chi la praticò. In chi scelse di stare con la dittatura prevalse la rabbia propria di chi, imprigionato in un regime politico e psichico totalitario, cercò di allontanare la vergogna, la colpa e la responsabilità fino a sfociare nel fanatismo distruttivo più crudo.

Per concludere.
Oggi, in un periodo di smarrimento della memoria storica, in cui le manifestazioni di filo-fascismo si fanno sempre più esplicite e diffuse, è divenuto inderogabile trasmettere in una maniera profonda la storia della Resistenza. Una storia che, come ho cercato di mostrare, andrebbe raccontata per quella che è stata: una vicenda umana che riguardò, fra le altre cose, il processo di maturazione esistenziale di tanti giovani che la storia aveva messo nella condizione di dover scegliere.




Posted on: 2020/04/21, by :