La sfrontataggine di Orban e le incertezze della Ue

di Daniele Viotti|

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I quotidiani hanno dato notizia dell’intenzione del premier ungherese Viktor Orban di indire cinque referendum sulla contestata legge cosiddetta “antigay”, una norma con la quale, dietro una presunta serie di tutele per i minori, si vuole impedire di fatto qualunque attività delle associazioni e delle organizzazioni per la tutela e la promozione delle persone LGBTI in Ungheria. È fin troppo palese che il referendum indetto da Orban non lo è sulla legge in questione, ma è un vero e proprio plebiscito sulla continua politica di ostilità verso le istituzioni Europee. E quel che interessa ad Orban non è neppure il risultato del referendum, quanto proprio aver dimostrato ai suoi cittadini di non piegarsi alle presunte imposizioni dell’Unione Europea. D’altronde non è la prima volta.

Già nel 2016 Orban organizzò una consultazione (nell’immagine in alto il Parlamento ungherese), contro le politiche dell’Unione Europea, in quel caso si trattava della proposta del piano di redistribuzione dei migranti proposto dall’allora Presidente della Commissione Jean Claude Juncker. Il referendum ottenne il 98% dei voti favorevoli, ma non passò perché non si raggiunse il quorum. E non credo sia una sorpresa per nessuno ricordare che ad Orban non importò proprio nulla del mancato quorum: il piano Juncker, in Ungheria, è rimasto lettera morta.

Senza dimenticare che dovremmo concentrarci sul fatto che in Ungheria si sta giocando una partita politica letteralmente sulla pelle e i diritti civili e umani della comunità LGBTI (e dovremmo indagare di più sulle loro condizioni attuali di vita) appare evidente che questo referendum è un ulteriore problema per la Commissione Europea e soprattutto per il Consiglio che non sa letteralmente come comportarsi. La strada che probabilmente verrà intrapresa sarà quella di una qualche forma di sanzione economica, probabilmente un ridimensionamento o un ritardo nell’approvazione del Piano di Ricovero dell’Ungheria o un taglio ai fondi strutturali per quel Paese. Ma queste io ritengo che siano misure, seppure di forte impatto molto pericolose.

Quei fondi vanno, di norma, a università, piccole e medie imprese, amministrazioni locali, centri di ricerca. Insomma sono soldi che non colpiscono direttamente il regime anzi paradossalmente una loro riduzione alimenterebbe la retorica anti europea proprio di Orban. Insomma le istituzioni si trovano a compiere una spericolata danza su una corda molto molto sottile. Eppure una soluzione si potrebbe trovare: la sospensione dell’Ungheria per un tempo determinato dal Consiglio, cioè dall’assemblea dei capi di Stato e di Governo. Una strada mai intrapresa prima per due ragioni: da un lato serve l’unanimità di tutti gli altri leader (e difficilmente la Polonia, ma anche gli altri Paesi di Visegrad potrebbero concedere il voto favorevole), dall’altro c’è un certo grado di pavidità proprio degli altri Stati. Perché una volta attivato quel meccanismo di sospensione non tarderanno ad arrivare altre richieste anche verso gli Stati di più antica tradizione comunitaria. I motivi, cioè le diverse infrazioni che gli Stati compiono di continuo, non mancherebbero.

Per chiudere vale la pena cominciare a prestare orecchio a quanti sempre più insistentemente cominciano a paventare a un’uscita dall’Unione Europea – volontaria o meno – di Ungheria e Polonia. Anche in questo caso ci si muove su un terreno assai minato. Varrà la pena studiare l’argomento partendo però da due primi evidentissimi pericoli: un possibile effetto domino di altri paesi dell’est europeo e gli appetiti di Russia e soprattutto Cina prontissimi a sostituirsi economicamente alla UE. E sappiamo che a quelle latitudini non hanno il palato molto fine sulle questioni dello stato di diritto, dei diritti civili e delle libertà politiche, sociali e personali.




Posted on: 2021/07/22, by :