Le 97 primavere di monsignor Luigi Bettazzi
di Luca Rolandi |
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Un pellegrino del Concilio Vaticano II. Questo è stato nell’ultimo decennio Luigi Bettazzi, arcivescovo emerito di Ivrea, che domani compie 97 anni. Lo incontrai insieme a Michele Ruggiero a cavallo tra il 2015 e 2016. Da una serie d’incontri uscì nel 2017 una sua biografia esplicita fin dal titolo “Ricordi, vita e pensiero in Luigi Bettazzi”1. Ma i suoi 97 anni sono soprattutto il traguardo straordinario di una vita intensa suggellata da una spiritualità sempre coniugata con la curiosità per il sociale, nel rispetto della parola delle Sacre scritture. E se si legge in filigrana, come si scrisse nell’introduzione del libro (da cui è tratta la foto in alto), la storia di Luigi Bettazzi aiuta a comprendere le trasformazioni sociali e politiche del nostro Paese, i passaggi decisivi della Chiesa nell’ultimo scorcio del secolo breve e con l’inizio del pontificato di Francesco, il suo aggiornamento e cambiamento nella fedeltà al vangelo di Gesù di Nazareth. Il rapporto tra la Chiesa e lo Stato e la difficile applicazione del Concilio Vaticano II (oggi ricorre la nascita dell’apostolo di quel Concilio, papa Giovanni XXIII, al secolo Angelo Giuseppe Roncalli, nato il 25 novembre del 1881 a Sotto il Monte in provincia di Bergamo) come espressione sociale e culturale nel contesto civile, momento liberante del messaggio evangelico, sono il cuore del racconto itinerante del presule. Ma Luigi Bettazzi è soprattutto un cristiano capace di essere lievito nella vita ordinaria e straordinaria, vissuta in prima fila nel corso del tempo.
La sua biografia è già una storia bellissima e in tanti ne hanno scritto e parlato. Le origini familiari, la formazione negli ambienti dell’associazionismo cattolico, la chiesa bolognese, il rapporto con il cardinale Giacomo Lercaro, il Concilio Vaticano II, la missione post-conciliare nella diocesi di Ivrea e nel mondo dal 1966 ad oggi sono la traiettoria di un pellegrinaggio, un cammino, un senso di orientamento che mai gli è venuto meno. Un modo di pensare la fede e la storia, uniti da una radicalità evangelica e dialogica espressa, dopo il Vaticano II, nella missione pastorale nel movimento per la pace cattolico Pax Christi.
Certo, non è né facile, né semplice rileggere in controluce il rapporto del presbitero e poi vescovo con la storia della società e della politica, della chiesa e del territorio. Ma nella sua lunga traiettoria di vita vi sono alcune parole chiave che sono espressioni di pensiero o luoghi (Treviso, Bologna, Roma, Ivrea), che si trasformano in una sorta di bussola per chi l’ascolta o ne legge i suoi libri e la sua biografia. Rimane significativa la stagione dell’impegno culturale nella Fuci vissuta a Bologna, città rossa per antonomasia, stretta nell’antinomia tra il sindaco comunista Giuseppe Dozza e il cardinale Lercaro, e gli anni del post- Concilio, in cui Bettazzi si confronta con il mondo nel suo microcosmo locale e nello stesso tempo attratto e plasmato dalla sua dimensione globale. A Ivrea, in una chiesa interna a un tessuto industriale e sociale che ancora resiste dalla morte dei suoi fondatori, Camillo e Adriano Olivetti, si apre il campo d’azione pastorale, spirituale e politico del giovane vescovo. E più della paura, Bettazzi mette sul piatto della bilancia il coraggio della speranza, il coraggio del pluralismo democratico e della rottura di uniformità calate dall’alto. Sospinto dalla «Spes contra spem», una locuzione latina cara a Giorgio La Pira, Bettazzi osava l’attraversamento del guado, accompagnato da una Chiesa in ascolto dei segni dei tempi, inciampi e ritardi compresi.
Del resto, il suo sacerdozio non è mai arretrato dinanzi alle situazioni complesse. Dall’Italia del post-Concilio alle trasformazioni sociali, dal terrorismo alla criminalità organizzata, dalla mutazione profonda della società nazionale alla secolarizzazione, dalla politica all’economia, dal globale al glocale, Bettazzi non ha mai rinunciato ad essere in primi fila, anche quando la sua esposizione rischiava di essere fraintesa. Come accadde nel 1976, quando inviò una lettera ad Enrico Berlinguer, segretario del Pci, il più grande partito comunista dell’Occidente. Quella missiva suscitò un’eco profonda nel mondo politico e della chiesa. Berlinguer confidò privatamente e poi pubblicamente il suo interesse ad aprire la finestra di un dialogo inedito con un vescovo di Santa romana Chiesa, nel momento in cui era maturato nel Paese il “compromesso storico” tra il Pci e la Democrazia Cristiana guidata dal pensiero di Aldo Moro. Il vescovo di Ivrea rifiutò. La sua non fu una scelta personale. Dalla Curia romana gli era arrivato l’ordine perentorio di fermarsi. Berlinguer aveva risposto nell’ottobre dell’anno successivo assicurando, in estrema sintesi, che il suo partito non era contro la religione e la Chiesa.
Oggi Bettazzi si apre sempre al sorriso quando gli si chiede se quella lettera aperta al segretario comunista possa aver pregiudicato la sua carriera all’interno della chiesa cattolica, ma coglie l’occasione per una sottolineatura: «Il rapporto con Berlinguer, che aveva espresso a un sacerdote toscano la volontà d’incontrarmi, non ebbe seguito per l’intervento pubblico del cardinale Albino Luciani. Il futuro papa Giovanni Paolo I era stato severamente esplicito nel ricordare che io, monsignor Bettazzi, non potevo parlare a nome della Chiesa. Seppi poi la ragione di questa sorta di ammonimento. Incontrai una volta sul treno per Assisi il cardinale Luciani, che m’intrattenne per un’ora sull’esigenza di non turbare la serenità dei fedeli».
Bettazzi è stato definito «progressista» in un quadro di riferimento novecentesco per il suo impegno sociale, politico e, non ultimo, pastorale. Tuttavia il suo camminare nella vita, si è sempre lasciato alle spalle un ingombrante e polveroso passato ispirandosi al Vangelo e non alle incrostazioni della storia e della tradizione che mutano. Non a caso, tra le sue affermazioni preferite ve ne è una ripresa da Norberto Bobbio: «La vera distinzione non è tra credenti e non credenti, ma tra pensanti e non pensanti». Una frase diventata drammaticamente attuale negli ultimi decenni.
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La sua biografia è già una storia bellissima e in tanti ne hanno scritto e parlato. Le origini familiari, la formazione negli ambienti dell’associazionismo cattolico, la chiesa bolognese, il rapporto con il cardinale Giacomo Lercaro, il Concilio Vaticano II, la missione post-conciliare nella diocesi di Ivrea e nel mondo dal 1966 ad oggi sono la traiettoria di un pellegrinaggio, un cammino, un senso di orientamento che mai gli è venuto meno. Un modo di pensare la fede e la storia, uniti da una radicalità evangelica e dialogica espressa, dopo il Vaticano II, nella missione pastorale nel movimento per la pace cattolico Pax Christi.
Certo, non è né facile, né semplice rileggere in controluce il rapporto del presbitero e poi vescovo con la storia della società e della politica, della chiesa e del territorio. Ma nella sua lunga traiettoria di vita vi sono alcune parole chiave che sono espressioni di pensiero o luoghi (Treviso, Bologna, Roma, Ivrea), che si trasformano in una sorta di bussola per chi l’ascolta o ne legge i suoi libri e la sua biografia. Rimane significativa la stagione dell’impegno culturale nella Fuci vissuta a Bologna, città rossa per antonomasia, stretta nell’antinomia tra il sindaco comunista Giuseppe Dozza e il cardinale Lercaro, e gli anni del post- Concilio, in cui Bettazzi si confronta con il mondo nel suo microcosmo locale e nello stesso tempo attratto e plasmato dalla sua dimensione globale. A Ivrea, in una chiesa interna a un tessuto industriale e sociale che ancora resiste dalla morte dei suoi fondatori, Camillo e Adriano Olivetti, si apre il campo d’azione pastorale, spirituale e politico del giovane vescovo. E più della paura, Bettazzi mette sul piatto della bilancia il coraggio della speranza, il coraggio del pluralismo democratico e della rottura di uniformità calate dall’alto. Sospinto dalla «Spes contra spem», una locuzione latina cara a Giorgio La Pira, Bettazzi osava l’attraversamento del guado, accompagnato da una Chiesa in ascolto dei segni dei tempi, inciampi e ritardi compresi.
Del resto, il suo sacerdozio non è mai arretrato dinanzi alle situazioni complesse. Dall’Italia del post-Concilio alle trasformazioni sociali, dal terrorismo alla criminalità organizzata, dalla mutazione profonda della società nazionale alla secolarizzazione, dalla politica all’economia, dal globale al glocale, Bettazzi non ha mai rinunciato ad essere in primi fila, anche quando la sua esposizione rischiava di essere fraintesa. Come accadde nel 1976, quando inviò una lettera ad Enrico Berlinguer, segretario del Pci, il più grande partito comunista dell’Occidente. Quella missiva suscitò un’eco profonda nel mondo politico e della chiesa. Berlinguer confidò privatamente e poi pubblicamente il suo interesse ad aprire la finestra di un dialogo inedito con un vescovo di Santa romana Chiesa, nel momento in cui era maturato nel Paese il “compromesso storico” tra il Pci e la Democrazia Cristiana guidata dal pensiero di Aldo Moro. Il vescovo di Ivrea rifiutò. La sua non fu una scelta personale. Dalla Curia romana gli era arrivato l’ordine perentorio di fermarsi. Berlinguer aveva risposto nell’ottobre dell’anno successivo assicurando, in estrema sintesi, che il suo partito non era contro la religione e la Chiesa.
Oggi Bettazzi si apre sempre al sorriso quando gli si chiede se quella lettera aperta al segretario comunista possa aver pregiudicato la sua carriera all’interno della chiesa cattolica, ma coglie l’occasione per una sottolineatura: «Il rapporto con Berlinguer, che aveva espresso a un sacerdote toscano la volontà d’incontrarmi, non ebbe seguito per l’intervento pubblico del cardinale Albino Luciani. Il futuro papa Giovanni Paolo I era stato severamente esplicito nel ricordare che io, monsignor Bettazzi, non potevo parlare a nome della Chiesa. Seppi poi la ragione di questa sorta di ammonimento. Incontrai una volta sul treno per Assisi il cardinale Luciani, che m’intrattenne per un’ora sull’esigenza di non turbare la serenità dei fedeli».
Bettazzi è stato definito «progressista» in un quadro di riferimento novecentesco per il suo impegno sociale, politico e, non ultimo, pastorale. Tuttavia il suo camminare nella vita, si è sempre lasciato alle spalle un ingombrante e polveroso passato ispirandosi al Vangelo e non alle incrostazioni della storia e della tradizione che mutano. Non a caso, tra le sue affermazioni preferite ve ne è una ripresa da Norberto Bobbio: «La vera distinzione non è tra credenti e non credenti, ma tra pensanti e non pensanti». Una frase diventata drammaticamente attuale negli ultimi decenni.
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1Luca Rolandi e Michele Ruggiero, Ricordi vita e pensiero in Luigi Bettazzi, arabAFenice, 2017
Posted on: 2020/11/25, by : admin
Posted on: 2020/11/25, by : admin