Le isole dei miti
Mercedes Bresso
in dialogo con Claude Raffestin |
Da molti giorni navighiamo nel Pacifico visitando isole che dal diciottesimo secolo hanno ispirato scrittori, pittori, avventurieri, che vi hanno visto volta a volta dei paradisi o dei luoghi di fuga. E che col tempo hanno finito per diventare dei miti. Sulle orme dei quali le crociere contemporanee trasportano migliaia di turisti. Abbiamo visitato l’isola di Pasqua, forse la più “isolata” di tutte, quella di Pitcairn dove vivono circa cinquanta discendenti degli ammutinati del Bounty, siamo poi arrivati a Tahiti e Bora Bora, per poi continuare verso le Isole Cook.
L’isola di Pasqua ha appassionato generazioni di etnografi che hanno cercato di capire come quella popolazione di origine polinesiana era riuscita ad arrivare percorrendo migliaia di chilometri senza terre e perché sembravano avere avuto come attività dominante la costruzione di centinaia di statue giganti rappresentanti gli antenati, scolpite e collocate con il solo aiuto di strumenti di pietra, di cordami e di tronchi d’albero.
In questi piccoli mondi isolati troviamo una costante: il fabbisogno di energia e di legname da lavoro ha ovunque prodotto la distruzione del patrimonio forestale. Anche se in clima tropicale la vegetazione a volte ricresce, la qualità è nettamente inferiore e l’assenza di legno ha prodotto crisi gravi. Fenomeno che noi abbiamo conosciuto nel mediterraneo in epoca classica e che era addirittura stato denunciato da Platone. Chi pensa che la crisi ambientale sia cosa recente e legata alle tecnologie avanzate di oggi, si sbaglia: contro la carenza di legno come fonte energetica e per case, navi, attività di tutti i tipi (e naturalmente con l’esaurimento di altre risorse) si sono scontrate la maggior parte delle civiltà del passato.
Alla fine il problema è sempre lo stesso: la crescita della popolazione e dei suoi bisogni entra in conflitto con la limitatezza delle risorse. Persino sull’isola di Pitcairn le poche decine di ammutinati e di polinesiani che vi si erano rifugiati, appena hanno cominciato a organizzarsi e a crescere di numero si sono scontrati con l’esaurimento degli alberi di pregio con i cui tronchi avevano costruito case e oggetti. Così sono iniziate ricerche di nuove isole, partenze e ritorni. E l’equilibrio odierno è consentito dal commercio con il resto del mondo.
Analoghe le vicende dell’isola di Pasqua, dove crescita della popolazione e la distruzione di risorse hanno provocato la rivolta degli abitanti sfruttati e la decadenza dell’isola e della sua popolazione, con meccanismi di tipo malthusiano. E ora l’isola vive di turismo e importa quasi tutto.
Entrambe hanno perso del tutto la loro autonomia.
Nel caso di Tahiti e Bora Bora la terza tappa del nostro percorso, il gusto per l’esotismo, i sogni di una vita più semplice e naturale, il sentimento di poter tornare all’origine delle cose, hanno creato dei miti che hanno incitato sempre più occidentali (Gauguin è uno dei più celebri) a installarsi in queste isole. Di solito dopo qualche anno , a volte solo qualche mese, i miti di partenza si sono rivelati deludenti, salvo forse per coloro che non vogliono vedere.
L’esistenza di questi luoghi, diventati mitici grazie alle descrizioni e alle leggende del passato, è oggi assicurata quasi interamente dal turismo e la loro “connessione” via internet con il resto del mondo produce gli effetti che ben conosciamo nei nostri luoghi montani o nelle nostre isole. I giovani tendono a partire e, se tornano, lo fanno per brevi periodi magari per lavori stagionali.
Il mito dell’esotismo dei Tropici starebbe arrivando a “fine corsa”? Certamente qualche sostituzione sta avvenendo, ad esempio con la passione per il turismo dei poli (Antartide, Capo Horn, Patagonia, Polo Nord, Capo Nord, Islanda ecc.) che sembra rimpiazzare quella per i paradisi tropicali. Potrebbe essere l’effetto del riscaldamento climatico a spingere i turisti verso i ghiacci?
In ogni caso il “consumo” dei miti è molto veloce, c’è il continuo bisogno di crearne di nuovi e, forse, è il modello tradizionale delle attività turistiche a giungere a fine corsa. La banalizzazione delle cose tende a “bruciare” i miti, il loro sfruttamento massiccio finisce per distruggerli nel confronto con realtà territoriali sempre più omologate.
Posted on: 2020/02/25, by : admin
L’isola di Pasqua ha appassionato generazioni di etnografi che hanno cercato di capire come quella popolazione di origine polinesiana era riuscita ad arrivare percorrendo migliaia di chilometri senza terre e perché sembravano avere avuto come attività dominante la costruzione di centinaia di statue giganti rappresentanti gli antenati, scolpite e collocate con il solo aiuto di strumenti di pietra, di cordami e di tronchi d’albero.
In questi piccoli mondi isolati troviamo una costante: il fabbisogno di energia e di legname da lavoro ha ovunque prodotto la distruzione del patrimonio forestale. Anche se in clima tropicale la vegetazione a volte ricresce, la qualità è nettamente inferiore e l’assenza di legno ha prodotto crisi gravi. Fenomeno che noi abbiamo conosciuto nel mediterraneo in epoca classica e che era addirittura stato denunciato da Platone. Chi pensa che la crisi ambientale sia cosa recente e legata alle tecnologie avanzate di oggi, si sbaglia: contro la carenza di legno come fonte energetica e per case, navi, attività di tutti i tipi (e naturalmente con l’esaurimento di altre risorse) si sono scontrate la maggior parte delle civiltà del passato.
Alla fine il problema è sempre lo stesso: la crescita della popolazione e dei suoi bisogni entra in conflitto con la limitatezza delle risorse. Persino sull’isola di Pitcairn le poche decine di ammutinati e di polinesiani che vi si erano rifugiati, appena hanno cominciato a organizzarsi e a crescere di numero si sono scontrati con l’esaurimento degli alberi di pregio con i cui tronchi avevano costruito case e oggetti. Così sono iniziate ricerche di nuove isole, partenze e ritorni. E l’equilibrio odierno è consentito dal commercio con il resto del mondo.
Analoghe le vicende dell’isola di Pasqua, dove crescita della popolazione e la distruzione di risorse hanno provocato la rivolta degli abitanti sfruttati e la decadenza dell’isola e della sua popolazione, con meccanismi di tipo malthusiano. E ora l’isola vive di turismo e importa quasi tutto.
Entrambe hanno perso del tutto la loro autonomia.
Nel caso di Tahiti e Bora Bora la terza tappa del nostro percorso, il gusto per l’esotismo, i sogni di una vita più semplice e naturale, il sentimento di poter tornare all’origine delle cose, hanno creato dei miti che hanno incitato sempre più occidentali (Gauguin è uno dei più celebri) a installarsi in queste isole. Di solito dopo qualche anno , a volte solo qualche mese, i miti di partenza si sono rivelati deludenti, salvo forse per coloro che non vogliono vedere.
L’esistenza di questi luoghi, diventati mitici grazie alle descrizioni e alle leggende del passato, è oggi assicurata quasi interamente dal turismo e la loro “connessione” via internet con il resto del mondo produce gli effetti che ben conosciamo nei nostri luoghi montani o nelle nostre isole. I giovani tendono a partire e, se tornano, lo fanno per brevi periodi magari per lavori stagionali.
Il mito dell’esotismo dei Tropici starebbe arrivando a “fine corsa”? Certamente qualche sostituzione sta avvenendo, ad esempio con la passione per il turismo dei poli (Antartide, Capo Horn, Patagonia, Polo Nord, Capo Nord, Islanda ecc.) che sembra rimpiazzare quella per i paradisi tropicali. Potrebbe essere l’effetto del riscaldamento climatico a spingere i turisti verso i ghiacci?
In ogni caso il “consumo” dei miti è molto veloce, c’è il continuo bisogno di crearne di nuovi e, forse, è il modello tradizionale delle attività turistiche a giungere a fine corsa. La banalizzazione delle cose tende a “bruciare” i miti, il loro sfruttamento massiccio finisce per distruggerli nel confronto con realtà territoriali sempre più omologate.
Posted on: 2020/02/25, by : admin