L’impronta umana sul pianeta

Mercedes Bresso
in dialogo con Claude Raffestin |

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Dopo quasi un mese di viaggio intorno al mondo pensiamo sia giunto il momento di proporvi qualche riflessione più strutturata, per poi riprendere a offrirvi delle impressioni “à bâtons rompus” sulle prossime tappe.

Il nostro viaggio intorno al mondo sta mettendo molto chiaramente in evidenza l’intensità dell’impronta umana sul pianeta (quella che in ecologia si chiama il footprint) che viene anche calcolata, ovviamente in modo approssimativo e convenzionale. Si tratta di un indice aggregato, composto da molti dati che stima l’incidenza delle attività umane sui diversi territori. In modo immaginifico gli specialisti hanno preso l’abitudine di dire che a un certo punto dell’anno noi abitanti della Terra abbiamo già consumato le risorse che il pianeta può riprodurre e sopportare, per quanto riguarda le emissioni, in un anno intero (attualmente quel giorno si colloca nel mese di agosto). Ovviamente l’impronta di ognuno di noi non è uguale, per alcuni il consumo di risorse è elevatissimo e per altri insufficiente alla vita. Ma, insieme, pesiamo sulla Terra in modo insostenibile. Secondo la definizione ONU uno stile di vita sostenibile deve permettere il soddisfacimento dei bisogni della generazione presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di realizzare i propri. Ciò ovviamente comporta dei limiti sia nell’uso delle risorse ambientali sia in quello della capacità di carico della biosfera.

Non c’è alcun dubbio che modificare i nostri comportamenti e la nostra economia secondo questo principio regolatore sarebbe di grande importanza… e tuttavia nelle nostre riflessioni di questi giorni ci rendiamo conto che probabilmente non è sufficiente.
L’applicazione rigorosa di queste regole potrebbe contrastare il cambiamento climatico, ridurre lo spreco di risorse, permettere la gestione corretta dei rifiuti solidi liquidi e gassosi… in sostanza limitare progressivamente la nostra impronta. In realtà, l’osservazione del mondo evidenzia conseguenze che non sono sufficientemente considerate.

La più drammaticamente evidente è l’urbanizzazione, che moltiplica per molte volte l’impatto sul suolo delle antiche città e ne fa sorgere ovunque di nuove. E quasi sempre è un’urbanizzazione secondo il modello americano di torri sempre più alte, che implicano un consumo enorme di energia per riscaldamento, climatizzazione, ascensori e altro ancora, spesso affiancate da sterminate bidonville. In un certo senso potremmo dire che stiamo eliminando l’antica varietà degli abitati umani legati alle caratteristiche, ai materiali, alla morfologia dei luoghi, cioè eliminiamo la socio-biodiversità che ha caratterizzato l’abitato alla scala umana.
Questa sparizione del territorio tradizionale incita alla creazione di paesaggi artificiali che non esistono in natura (come testimonia, per esempio, in modo paradossale l’urbanismo di Dubai, che costruisce quartieri a forma di fiori o di carte geografiche). Un altro esempio desolante è la parossistica ricerca da parte del turismo di paesaggi urbani e rurali tradizionali per soddisfare la domanda di diversità e tipicità dei luoghi. Col paradosso che i turisti attraversano immense e desolate periferie o agglomerati di grattacieli per andare a visitare un tempio o un gruppetto di case tradizionali accuratamente restaurate o ricostruite.
Percorrendo queste immense distese oceaniche ci rendiamo conto che bisogna prendersi cura della terra e dunque del suolo, che rappresenta solo poco più del 30 per cento della superficie del globo e che è prezioso non solo per noi, che lo utilizziamo per la produzione agricola e per tutti usi gli abitativi e produttivi, fino a occuparlo quasi interamente ma anche per tutte le specie animali e vegetali. Stiamo in sostanza “spingendo” le altre specie ai margini del pianeta. Ogni anno i naturalisti ci forniscono la contabilità delle specie in via di sparizione e ciò che più inquieta è renderci conto che solo sopravvivono quelle che imparano a vivere in simbiosi con le società umane (piccioni, gabbiani, roditori ma ormai anche cormorani o aironi che trovano il loro cibo nei rifiuti delle agglomerazioni urbane). Se non vogliamo restare soli (insieme a insetti, virus, batteri… che potrebbero essere i nostri veri eredi) dobbiamo imparare a usare le terre meno produttive e gli spazi interstiziali fra quelle già in uso, far crescere gli spazi liberi fra quelli urbanizzati, ricreare la produttività delle terre esaurite (molti deserti erano un tempo aree fertili o possono ritornare ad esserlo), insomma dobbiamo immettere molto sapere “regolatore” nel nostro rapporto con lo spazio che abbiamo per troppo tempo sprecato, spesso senza preoccuparcene.
Mentre si viaggia, il mondo sta affrontando la battaglia contro il coronavirus, a riprova che la vita è una cosa ben più complessa e feroce delle semplificazioni romantiche che spesso ne facciamo: gli animali superiori vivono sotto la continua aggressione degli infinitamente piccoli.

Non è quindi una questione di colpevolizzazione: tutte le specie animali usano i propri organi endosomatici, la propria forza, la propria intelligenza, la propria velocità, ogni loro risorsa, per vincere la battaglia per la sopravvivenza in competizione con le altre. Così ha fatto la specie umana, che ha saputo sviluppare degli organi esosomatici (strumenti e macchine) per moltiplicare la propria forza e le fonti fossili, per aumentare la propria disponibilità di energia e, oggi, ha imparato ad accelerare all’infinito anche la propria intelligenza, la propria comprensione dei meccanismi della vita. In sostanza la nostra specie ha avuto nella lotta per sopravvivere troppo successo. E adesso deve imparare a prendersi cura del resto del mondo vivente se non vuole distruggere le basi materiali della propria esistenza e questo meraviglioso, piccolo, pianeta. Che, anche al ritmo lento di una nave, si percorre in meno di quattro mesi.




Posted on: 2020/02/03, by :