L’Iran, la Mezzaluna sciita, i talebani e il destino dell’Iraq

di Germana Tappero Merlo|

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C’è una strada che parte da Teheran e giunge a Beirut che da mesi è ormai sicura, perché totalmente protetta1. Forse l’unica importante arteria che attraversa quattro Stati di quella regione e che può vantare una pressoché totale sicurezza. Certo, si viaggia a singhiozzo, per via dei check points, quelli voluti dall’Iran e presidiati dalle milizie sciite irachene, da quelle regolari di sicurezza siriane e da quelle degli hezbollah libanesi. Ma è solo così che l’Asse della Resistenza (Iran, Siria, Hezbollah e Hamas), può contare su quell’arteria per il trasporto di forniture militari, commerciali e di beni di consumo, e permettersi così il sostegno reciproco.

Perché la lunga guerra siriana ha messo a dura prova la sua gente; perché le sanzioni statunitensi strozzano quella iraniana; perché il cattivo governo, gli scontri interni, le onde lunghe del conflitto in Siria e Iraq stanno massacrando quella libanese; e la scellerata belligeranza di Hamas verso Israele perseguita e penalizza quella palestinese di Gaza. Fra tutte le forniture, però, spiccano per quantità e importanza quelle militari, già causa di innumerevoli scontri sul terreno e di bombardamenti mirati, perché tutto ciò che muove dall’Iran verso la Siria e il Libano rappresenta la grande preoccupazione strategica di Israele per la sua sopravvivenza. Perché alla fine, l’obiettivo di Teheran è proprio quello di assicurarsi ampia influenza e stretto controllo sull’area che circonda Israele, in modo da allestirvi una presenza militare costante.

Il movimento di uomini e mezzi su quel percorso ha rappresentato una preoccupazione anche per gli Stati Uniti e dei suoi alleati nel corso di questi ultimi anni di conflitto in Iraq, perché vi proliferavano le milizie del Califfato Islamico. Ma ora che quest’ultimo è pressoché scomparso nella sua compagine territoriale, la pericolosità delle sue milizie notevolmente ridotta, e le preoccupazioni americane cesseranno presto dato che Biden ha confermato il ritiro delle sue truppe da quel Paese entro la fine del 2021. O almeno, così spera ardentemente e arditamente la politica statunitense; più timorosa quella ebraica.

Le battaglie dell’Iran per la messa in sicurezza di quella via sono state tante: vi avevano partecipato anche il gen. Qassem Suleimani, iraniano, e quello iracheno Abu Mahdi al-Muhandis2 poi caduti per mano statunitense ad inizio 2020. Proprio a costoro, dal degenerare delle rivolte arabe del 2011, Khamenei aveva affidato la parte operativa dell’ambizioso progetto di Mezzaluna Sciita, ossia l’unione, in quel cordone di sicurezza effettiva ora pressoché raggiunto e da difendere, di tutte le genti sciite del Vicino Oriente, lungo quella strada appunto da Teheran a Beirut, passando da Bagdad e Damasco, sino a collegare l’Iran al Mediterraneo assicurandogli, di conseguenza, anche l’approccio tattico e strategico in quelle acque.

Le genti sciite, quindi, ad ovest di Teheran godrebbero di un ombrello di sicurezza garantito direttamente dalla Guida Suprema, dai Guardiani della Rivoluzione, dalle kata’ib sciite irachene e di quelle degli hezbollah. Una mobilitazione generale, ampia, costosa ma di interesse vitale per la sicurezza sciita in una regione ancora molto instabile e vicina ad essere lasciata da ciò che rimane del contingente militare statunitense. Spontaneo, quindi, chiedersi quanto l’Iran tema ora invece per le proprie genti ad Oriente, in quell’Afghanistan in mano ai talebani sunniti, un tempo considerati un nemico mortale, e concentrate nel centro del Paese, con sacche più piccole a nord, ovest (in particolare Herat) e verso sud-ovest.

In passato vi erano state azioni violente, anche talebane, contro la popolazione sciita hazara e in seguito attacchi a moschee e scuole nei distretti sciiti, anche se questi ultimi condotti, si ipotizza, da quello Stato Islamico-Khorasan responsabile della strage all’aeroporto di Kabul a fine agosto. I talebani hanno negato sempre un loro coinvolgimento in quelle violenze e addirittura hanno permesso agli sciiti di commemorare l’Ashura, così come hanno nominato un religioso sciita hazara come governatore in un distretto a nord del Paese. L’atteggiamento di Teheran verso i talebani, quindi, è cauto, per certi versi ambiguo, ma anche molto pragmatico.

Nei giorni scorsi le autorità iraniane avrebbero, infatti, consigliato ai loro media di attenuare qualsiasi critica ed evitare termini quali brutalità, crimine, atrocità nei confronti dei vicini talebani. L’ambiguità, invece, data ormai anni, visto che l’Iran da sempre tentava di scoraggiare l’insorgenza talebana, specialmente nelle province sciite di Herat, Farah e Nimruz, e al contempo ospitava sia leader talebani (mullah Akhtar Mohammad Mansour) che membri chiave dei loro fratelli nel jihad, ossia di al-Qaeda, alla quale Teheran ha fornito nel tempo denaro, armi sino a vie sicure per l’esfiltrazione di droga.

L’oppio è una risorsa sulla quale i talebani fanno affidamento per finanziarsi, e le 570 miglia di confine con l’Iran includono diverse rotte commerciali molto redditizie per questo commercio. Ma non solo. Vi è anche un altro aspetto pragmatico e decisamente strategico: la necessità dell’Iran dell’acqua che scorre proprio nell’Helmand afghano, la zona che fornisce oltre il 40% della produzione mondiale di oppio. Nelle sue vallate vi sono una serie di dighe e di canali (fatte costruire, tra l’altro, dall’agenzia US per lo sviluppo negli anni ’50-’70) che controllano l’uscita del fiume Helmand nella regione iraniana del Sistan-Belucistan, permettendo di sopravvivere a circa un milione di persone. Un interesse nazionale vitale per il governo iraniano, tanto che per anni Teheran ha sviluppato legami con gruppi armati talebani all’interno dell’Helmand nella loro lotta contro il governo centrale di Kabul e a protezione della ricca produzione di oppio e di traffico di droga anche per garantirsi che non venisse interrotto il flusso di quelle acque.

E poi l’Iran e i talebani hanno nemici in comune come gli Stati Uniti, condividendo una generale antipatia verso tutto ciò che è occidentale, e lo Stato Islamico. Se il primo nemico è stato umiliato nella sua potenza militare e logistica dalle scene della frettolosa, caotica e sanguinosa fuga da Kabul, il secondo sta proliferando nella regione con le sue variegate espressioni e sigle geografiche, tanto da diventare un richiamo per foreign fighters, questa volta in maggioranza asiatici, fra cui pakistani, bengalesi, birmani e addirittura cinesi, così come ex-talebani delusi dalle intese di Doha e dal dialogo con gli Usa, tutti pronti a combattere per un Califfato vero, radicale ed estremo contro i duttili, accomodanti islamici talebani. Per questi ultimi e l’Iran, l’IS è una molestia e non una minaccia strategica, ma disturba la sicurezza e la pace sociale, obiettivi fondamentali per la solidità di ogni governo, anche talebano.

Non deve meravigliare quindi che proprio la teocrazia sciita iraniana sia l’esempio che i nuovi governanti talebani sunniti vogliono seguire per l’Afghanistan. “Sarà una Repubblica Islamica simile a quella dell’Iran” ha affermato Zabihullah Mujahid, il portavoce dei talebani ad una tv cinese parlando del futuro politico dell’Afghanistan. “Hibatullah Akhundzada sarà la più alta autorità religiosa e avrà potere di decidere la linea politica, annullare le leggi e, se il caso, rimuovere anche il Presidente, venendone altresì riconosciuta l’ultima parola su tutte le questioni di Stato”. E l’Iran, di fronte alla scelta fra un governo ‘fantoccio’ pro-Occidente o un Emirato Islamico talebano sunnita non ha dubbi: vi sono affinità che potrebbero aprire la strada a una futura cooperazione strategica, mettendo da parte qualsiasi altra considerazione ideologica o religiosa.

D’altronde è prevedibile che l’unica condizione posta dall’Iran è che l’Emirato talebano sia disposto a fornire garanzie credibili per salvaguardare gli interessi degli sciiti afghani. L’alternativa è riproporre la dura e crudele lotta per porre in sicurezza le proprie comunità, magari in una guerra per procura, utilizzando milizie (come la veterana Brigata Fatemiyoum, composta da afghani, reclutati, addestrati ed equipaggiati dalla Forza Quds delle Guardie della Rivoluzione Iraniana e inviati a combattere in Siria dal 2012) o addirittura intervenendo direttamente, potendoselo però permettere, fra crisi economica e pandemia. D’altronde ai combattenti iraniani non manca l’esperienza, visto il pesante coinvolgimento per porre in sicurezza e garantire la proiezione di influenza della teocrazia degli ayatollah sui territori lungo la strada che parte da Teheran e arriva a Beirut, ponendo però pesanti interrogativi su cosa accadrà dopo il ritiro US dall’Iraq. Ma quella è ancora un’altra storia.

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