Il crollo del ponte Morandi: la sostenibilissima leggerezza del cinismo
di Menandro|
|“Personalità spregiudicata e incurante del rispetto delle regole, ispirata a una logica strettamente commerciale e personalistica, anche a scapito della sicurezza collettiva”. Questo il ritratto di Giovanni Castellucci – ex amministratore delegato della società Aspi (Autostrade per l’Italia), da giorni agli arresti domiciliari – tratto dall’ordinanza del Gip di Genova, Paola Faggioni, che segue un altro ramo dell’inchiesta sul crollo del ponte Morandi. Insomma, ad essere generosi, un figuro amorale, secondo il giudice delle indagini preliminari. Che aggiunge, in un altro passaggio, riportato da più quotidiani: “Castellucci era perfettamente al corrente della situazione di problematicità delle barriere e costantemente informato sulle sulle decisioni per la gestione delle stesse, che ha pienamente avallato e sostenuto”.
Sarebbe tuttavia scorretto scaricare l’elaborazione giudiziaria del lutto unicamente sul dottor Castellucci, così da renderlo il capro espiatorio per definizione del dramma. Si perderebbe di vista il quadro d’insieme, la rete di complicità che alimenta un sistema che a sua volta si sorregge con la legge non scritta del “girarsi dall’altra parte per non vedere sconcezze e disonestà”: un circolo vizioso. Tutti colpevoli, nessun colpevole? È il rischio che si corre, inutile negarlo. La storia delle tre scimmiette regna sempre sovrana: una non sente, l’altra non vede, la terza non parla. Almeno fino a quando, le intercettazioni telefoniche non raccontano e dimostrano all’opinione pubblica le capacità audiometriche e visive degli indagati.
Del resto, a due anni dalla tragedia in cui sono morte quarantatré persone, il quadro giudiziario che oggi si delinea è esattamente quello che buon senso e logica avanzavano fin dal 14 agosto 2018: disinteresse finalizzato all’avidità, sostenuto da un cinismo come antidoto a qualunque, anche timido, rigurgito della coscienza. Un altro circuito vizioso, parente stretto di quello sopra citato. Ieri come oggi, come in decine di altri episodi luttuosi in giro per l’Italia e per il mondo, in cui l’esasperazione del profitto viene anteposta al rispetto della vita. Appunto, l’esasperazione del profitto, senza la quale sembrerebbe non si guadagni mai “abbastanza”, più di quello che già si guadagna, appetiti economici puntualmente ritenuti mai adeguati – ma non si sa in base a quale parametro – alle proprie capacità e responsabilità.
L’Ad Castellucci nell’essere invitato quasi due anni fa ad uscire dall’Aspi, ha quantificato il suo addio dopo vent’anni di collaborazione in 13 milioni di euro. Una liquidazione d’oro tuttavia che la società ha congelato per mettersi al riparo da eventuali danni giudiziari. Una cifra elevata se proiettata sul fondale di una tragedia. Ma presumiamo, per rispetto della verità, che sia la stima basata su un doppio ordine di meriti: l’ingaggio ordinario e i profitti (alti) che l’AD ha fatto realizzare alla società. La chiave di volta, quest’ultima, per comprendere come tutto sia potuto accadere: anche gli azionisti (grandi) non vedono, non sentono e soprattutto non parlano. Quando si è impegnati a contare i soldi, è bene non distrarsi.
Posted on: 2020/11/16, by : admin
Sarebbe tuttavia scorretto scaricare l’elaborazione giudiziaria del lutto unicamente sul dottor Castellucci, così da renderlo il capro espiatorio per definizione del dramma. Si perderebbe di vista il quadro d’insieme, la rete di complicità che alimenta un sistema che a sua volta si sorregge con la legge non scritta del “girarsi dall’altra parte per non vedere sconcezze e disonestà”: un circolo vizioso. Tutti colpevoli, nessun colpevole? È il rischio che si corre, inutile negarlo. La storia delle tre scimmiette regna sempre sovrana: una non sente, l’altra non vede, la terza non parla. Almeno fino a quando, le intercettazioni telefoniche non raccontano e dimostrano all’opinione pubblica le capacità audiometriche e visive degli indagati.
Del resto, a due anni dalla tragedia in cui sono morte quarantatré persone, il quadro giudiziario che oggi si delinea è esattamente quello che buon senso e logica avanzavano fin dal 14 agosto 2018: disinteresse finalizzato all’avidità, sostenuto da un cinismo come antidoto a qualunque, anche timido, rigurgito della coscienza. Un altro circuito vizioso, parente stretto di quello sopra citato. Ieri come oggi, come in decine di altri episodi luttuosi in giro per l’Italia e per il mondo, in cui l’esasperazione del profitto viene anteposta al rispetto della vita. Appunto, l’esasperazione del profitto, senza la quale sembrerebbe non si guadagni mai “abbastanza”, più di quello che già si guadagna, appetiti economici puntualmente ritenuti mai adeguati – ma non si sa in base a quale parametro – alle proprie capacità e responsabilità.
L’Ad Castellucci nell’essere invitato quasi due anni fa ad uscire dall’Aspi, ha quantificato il suo addio dopo vent’anni di collaborazione in 13 milioni di euro. Una liquidazione d’oro tuttavia che la società ha congelato per mettersi al riparo da eventuali danni giudiziari. Una cifra elevata se proiettata sul fondale di una tragedia. Ma presumiamo, per rispetto della verità, che sia la stima basata su un doppio ordine di meriti: l’ingaggio ordinario e i profitti (alti) che l’AD ha fatto realizzare alla società. La chiave di volta, quest’ultima, per comprendere come tutto sia potuto accadere: anche gli azionisti (grandi) non vedono, non sentono e soprattutto non parlano. Quando si è impegnati a contare i soldi, è bene non distrarsi.
Posted on: 2020/11/16, by : admin