L’oro blu e l’emergenza che non tramonta/3

di Marco Travaglini|

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C’è poi il problema dello spreco. Nei Paesi europei le perdite sono stimate in media intorno al 30 per cento e giungono fino al 70-80 per cento in alcune città. Soltanto il 2 per cento circa dell’acqua potabile è effettivamente utilizzato per il consumo umano. La stessa Convenzione delle Alpi finora non ha prodotto grandi risultati.

Sprechi e obsolescenza degli acquedotti

Esistono direttive europee risalenti a più di vent’anni fa (nel febbraio 1998) che raccomandavano una “gestione integrata e sostenibile degli ambienti acquatici”. In Italia, la legge Galli del 1994 imponeva “il livello di deflusso necessario alla vita negli alvei…”. Analogo impegno veniva imposto dalla legge che istituiva le Autorità di bacino. Come sono andate le cose? Attualmente il 98 % della popolazione è servita da acquedotti con servizi spesso scadenti. Il 34% degli abitanti serviti non ha acqua a sufficienza e il 44% non beve l’acqua del rubinetto.

Non sono bazzecole: i problemi – e le opportunità – legati all’economia dell’acqua sono un fatto importante. Si va dagli impianti di regimazione alla gestione dell’acqua per usi potabili ai progetti idroelettrici per colmare il pauroso deficit (in Piemonte sfiora il 50%) d’energia elettrica in tutto il settore alpino, alla utilizzazione del diporto lacuale (l’alto Piemonte è anche la zona dei laghi Maggiore, Orta e Mergozzo, ai quali vanno aggiunti i canavesani laghi di Viverone, Candia e Sirio, quelli di Avigliana e altri minori) e a tutte le attività sportive connesse alla vita fluviale.

La centralità delle Regioni

Il sistema alpino produce quasi 50 miliardi di metri cubi d’acqua: un’immensa risorsa naturale che, almeno in parte, va trasformata in risorsa economica. Si tratta di sperimentare e di diffondere – accanto a modalità di consumo e distribuzione che puntino all’efficienza, al risparmio e al minor impatto ambientale possibile – modalità di produzione energetica incentrate sulle energie rinnovabili, che possono anche costituire delle filiere economiche brevi, come nel caso del legno.
È necessario promuovere l’attivazione di progetti e di risorse ad hoc da parte del sistema pubblico degli Enti locali (dalle Regioni in giù), capaci di coinvolgere anche i privati. Nessuno può negare che si tratti di risorse delle montagne, ma è un fatto che alle montagne non ritorna praticamente niente. Le regioni del Nord-Ovest producono complessivamente almeno 30 miliardi di metri cubi d’acqua. Più della metà defluisce al mare inutilizzata. Ma la parte usata assume, presso i consumatori finali, valori interessanti.

Dai pochi centesimi al metro cubo dei consumi agricoli si sale ai 45/80 centesimi per i consumi industriali e idropotabili, fino ai 200/300 euro al metro cubo nel caso si tratti d’acque minerali. Ci sono leggi regionali sul ciclo idrico (come quella piemontese) che stabiliscono in percentuale un ritorno minimo alle comunità locali (le ex-comunità montane, ad esempio) sul valore finale dei consumi idropotabili, utilizzando le risorse per rafforzare l’assetto idrogeologico “friabile” di molti territori. Insomma, usare meglio l’acqua, affinché una risorsa di tutti serva davvero a tutti.

Gli effetti vanificati del Referendum del 2011

Il lungo periodo di crisi economica e sociale ha determinato un forte incremento dell’utilizzo dell’acqua potabile, con la scelta dell’acqua di rubinetto per bere che è salita a tre quarti della popolazione. Un dato evidente, legato a una politica di risparmi, che emerge da una ricerca fatta qualche tempo fa da CRA Nielsen in collaborazione con Aqua Italia, associazione che unisce le imprese che si occupano del trattamento delle acque primarie. Acqua che, dopo il referendum sulle risorse idriche del giugno 2011 (in cui sono state abrogate le leggi che parlavano di una sua privatizzazione) sarebbe dovuta passare dalle società private al settore pubblico. Passaggio in gran parte non avvenuto a causa di ricorsi in Cassazione e al TAR, decreti legge e vuoti normativi.

Così è stata in parte minata la vittoria del fronte dell’acqua pubblica nel 2011 che portò circa 27 milioni di persone a votare per il referendum sulla privatizzazione dell’acqua. Grazie a quel risultato l’acqua va considerata un bene pubblico, ma nei fatti non si sono determinati dei concreti cambiamenti. In realtà l’acqua adesso costa di più, con perdite stimate in circa due miliardi e mezzo di metri cubi all’anno, vale a dire un buon terzo del totale. E con l’autorizzazione alla revisione delle tariffe, concessa già qualche anno fa dall’Autorità per l’energia elettrica, il gas e il sistema idrico si sono visti degli aumenti sensibili nelle bollette, ai quali vanno sommati gli effetti dell’instabilità dovuta ai conflitti in corso.

Con gli investimenti che sono rimasti fermi al palo e la forte recessione dovuta alla diffusione virale e pandemica del Covid19 e al conseguente rallentamento complessivo dell’economia, in una nazione dove si hanno dei picchi di dispersione dell’acqua distribuita pari al 50% nel sud e in cui il 15% della popolazione vive in zone prive di rete fognaria, il quadro è preoccupante. Il diritto all’acqua, lungi dell’essere un tema marginale, è più che mai attuale. E non si può nascondere la testa sotto la sabbia come gli struzzi.

(fine)

I precedenti articoli

1) in https://www.laportadivetro.org/wp-content/uploads/2022/05/model_-trava2.pdf
2) in https://www.laportadivetro.org/wp-content/uploads/2022/05/model_-trava02.pdf”




Posted on: 2022/05/15, by :