Macigni veri e altri immaginari, ma ripartire si deve

di Pietro Terna|

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Le organizzazioni sindacali hanno chiesto a Draghi la proroga del blocco dei licenziamenti come primo punto. Draghi ha considerato importante la richiesta, ma l’ha inclusa in un ragionamento più ampio, su investimenti, piano industriale, aree di crisi, Mezzogiorno e ammortizzatori sociali. Ciò vuol dire essere ben consapevoli che sulla nostra strada c’è un macigno enorme, che con i mezzi sino ad ora usati non abbiamo saputo né spostare, né aggirare: quello della bassa occupazione e delle basse retribuzioni.

Le retribuzioni in termini reali non crescono dal 1991, quando fu data la definitiva disdetta dell’automatismo della scala mobile, con Pininfarina presidente della Confindustria. Chi scrive può assicurare, avendone fatto parte, che il progetto era coerente con la lezione dell’economista Ezio Tarantelli, ucciso nel 1985 dai terroristi che si facevano chiamare “Brigate rosse”. L’obiettivo di svincolare salario e inflazione era infatti al centro dall’accordo del 1993, che aprì alla contrattazione decentrata di secondo livello, dove si sarebbe scambiati produttività e salario, in una spirale non più di inflazione, ma di crescita. Questo poi non avvenne, per una somma di errori e responsabilità, ma soprattutto per una carenza di vera leadership da ogni parte. Nei pochi casi in cui si delineò un vero strappo in avanti, i corridori che si staccava dal gruppone erano prontamente ricacciati nella palude delle non scelte. Ora abbiamo bassi salari, bassa occupazione, modesta o nulla dinamica della produttività, economia in crisi strutturale, per la mancanza di un meccanismo endogeno di investimenti-consumi-crescita.

Il macigno dei licenziamenti possibili con la fine del blocco fa parte di questo scenario, aggravato dal blocco dell’economia per contrastare il virus SARS-CoV-2. Le conseguenze negative non sono state così tragiche come le prefiche si esaltavano a strillare, ma ci sono state. I licenziamenti non sono una risposta automatica. Come ho già scritto1 nella Porta di Vetro, un’azienda sana, che ha lavoro perché competitiva, non assume o licenzia per capriccio, ma per effetto di valutazioni molto ponderate sul conto economico. Non esiste imprenditore sano di mente che rinunci a cuor leggero a collaboratori che si sono formati facendo parte della squadra che dà forza e struttura alla sua azienda. C’è dunque ancora tempo per contrastare la temuta valanga di perdita di posti di lavoro se si butta tutto il peso del Governo – con Draghi, con Franco all’Economia, con Orlando al Lavoro e con Giorgetti allo Sviluppo (molto bene che i due ministri politici siano una di sinistra e uno di destra) – nella direzione della ripartenza, con urgenza e forza, per annullare la spirale della rinuncia.

Abbiamo altri macigni sulla strada. Si dà molto peso alla crisi Alitalia, ora nazionalizzata al 100%. Se la responsabilità fosse mia, scinderei la difesa dei diritti di chi ci lavora dal destino dell’azienda, che regalerei a chi avesse referenze tali da essere un gestore credibile, con un bonus per ogni dipendente che fosse assorbito e con ammortizzatori sociali di lunga durata per quelli che restano. Diversa la situazione dell’altro blocco sulla strada della ripresa, cioè l’Ilva. Il numero di dipendenti non è lontano da quello Alitalia, un po’ meno di 10mila in entrambi i casi, senza calcolare l’indotto, ma qui c’è un problema ulteriore che è quello ambientale, da definire in via prioritaria con una soluzione che sia incontrovertibile. Se l’unica possibilità è la chiusura, occorre pensare in termini strategici a nuovi stabilimenti per la produzione di acciaio, non essendo credibile una grande economia troppo dipendente o del tutto dipendente dall’importazione di acciaio. Quella che serve è la chiarezza delle scelte.

La costruzione delle scelte per il Piano nazionale di ripresa e resilienza, o come il Governo vorrà chiamare l’insieme delle decisioni per l’utilizzazione dei nuovi fondi europei, deve avere di fronte a sé tutti questi macigni e altri ancora. Uno è quello della dubbia capacità della macchina pubblica così com’è, nel gestire quei fondi: fondamentale dunque un potenziamento come primo passo. C’è anche un macigno immaginario ed è quello del debito pubblico. So che scrivendo ciò faccio sobbalzare i (pochissimi) lettori. La saggezza popolare ricorda che potendo scegliere tra avere molto crediti o molti debiti, è molto meglio la seconda situazione, non fosse che per le cure premurose che i creditori ci rivolgerebbero, informandosi continuamente sullo stato della nostra salute. Obiezione: c’è il default e il crollo! Non per una economia grande, che ne comprometterebbe una grandissima (l’Europa). Altra obiezione: c’è l’onere del debito che blocca l’economia e crea lo spread a danno di tutti! In realtà ora non c’è e possiamo fare in modo che non ci sia in futuro, se chi acquista debito pubblico italiano lo fa sulla base della fiducia prospettica della nostra economica.

Oggi, 15 febbraio, con encomiabile puntualità alla scadenza mensile, la Banca d’Italia ha pubblicato2 la nota su “Finanza pubblica: fabbisogno e debito”. Sono molto curioso di poter verificare domani sui quotidiani se prevale l’effetto “bicchiere mezzo pieno” oppure “mezzo vuoto”. Per me è mezzo pieno, in quanto il Ministero dell’economia, in particolare il Tesoro, e la nostra Banca centrale, hanno saputo gestire un anno difficilissimo in cui il fabbisogno delle Amministrazioni pubbliche, misurato cumulando sempre i 12 mesi precedenti, si è moltiplicato per otto; il debito pubblico è cresciuto, ma a fine 2020 stava molto rallentando la salita. Inoltre, cito: “Lo scorso dicembre la durata media del debito era pari a 7,4 anni, da 7,3 del 2019. Nel corso del 2020 la quota del debito detenuta dalla Banca d’Italia è cresciuta per effetto degli acquisti di titoli pubblici nell’ambito dei programmi decisi dall’Eurosistema, collocandosi al 21,6 per cento (dal 16,8 per cento della fine del 2019)”. Per cominciare, quel quinto abbondante di debito non è un problema.

Proviamo a andare avanti con coraggio e determinazione, è l’unica possibilità.



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