Monti e Draghi, la maledizione di palazzo Chigi

di Menandro|

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Cambiano i tempi, ma la scena che si ripresenta sotto gli occhi degli italiani è la stessa grottesca per i diretti interessati, entrambi probabilmente pentiti per come sono andate e si sono messe le cose. Il caso vuole che abbiano anche lo stesso nome di battesimo: Mario, dei superMario nell’immaginario collettivo, almeno prima di averli testati in politica. Diversi i cognomi.

Il primo si chiama Mario Monti ed è un personaggio stimato in Europa e nel mondo. Già commissario europeo, nel 2011, a due anni dalla scadenza del settennato, Monti è accreditato come probabile successore al Quirinale di re Giorgio, al secolo Giorgio Napolitano. Classe 1943, si presenta con un profilo serio e severo che persino fa dubitare che sia mai stato giovane. Dunque, dicono i battutisti di professione, in perfetta continuità con Giorgio Napolitano, su cui anche e già nel Pci si erano perse le tracce della sua giovinezza.

Figlio dell’alta borghesia milanese, docente universitario alla prestigiosa Bocconi, Mario Monti nel novembre del 2011 si ritrova nel mezzo di uno psicodramma nazionale. Il 9 novembre Napolitano, che lo ha nominato senatore, gli chiede di formare un governo dopo aver contrattato le dimissioni di Silvio Berlusconi, all’epoca presidente del consiglio. L’imperativo è uno solo: Monti deve risollevare la barca dell’Italia che rischia il naufragio. Con lo spread ai massimi storici e la credibilità di Berlusconi ai minimi politici, il senatore a vita si ritrova negli scomodi panni del Salvatore della Patria, nel solco delle migliori tradizioni italiche da Cincinnato in avanti.

Poco più di un anno più tardi, però, Monti decide di scendere direttamente in campo alle politiche del 24-25 febbraio 2013 con un suo partito dal nome estremamente impegnativo: “Scelta civica”. Ma è una scelta molto fragile nel suo civismo, vuoi per la litigiosità degli eletti, vuoi perché è una scelta che non mette radici nell’elettorato. Avesse avuto pazienza, dicono in molti, avesse resistito alle sirene della politica e del narcisismo sempre in agguato, con tutta probabilità il 20 aprile dello stesso anno, i partiti avrebbero trovato su Monti la giusta consonanza per il Quirinale, anziché essere costretti a pietire da Giorgio Napolitano la riconferma. Il presidente, mostrando un lato relativamente sadico, li avrebbe poi bacchettati nel discorso parlamentare per la loro incapacità a trovargli un successore… Per la cronaca, alla reprimenda del Presidente, l’emiciclo scattò in piedi ad applaudire come un sol uomo, mostrando a sua volta il lato masochistico della politica italiana. Per la serie, il Paese non si fa mancare mai nulla.

Così come non si è voluto far mancare un altro Mario, il banchiere Draghi, ennesimo salvatore della Patria in virtù della sua fama di essere il migliore, noto candidato in pectore al Colle fino alla riconferma di Sergio Mattarella. Fama ben costruita in Bankitalia quella di Draghi, per poi essere affinata e raffinata alla Bce grazie a una frase diventata vangelo – “whatever it takes”, “tutto è necessario” – pronunciata nel 2012 in una fase di grande difficoltà per l’economia dell’Europa.

Ma che Draghi stesse cominciando a pentirsi di aver accettato palazzo Chigi, era diventato abbastanza evidente quando ha cercato, con il discorso del “nonno”, di rientrare in corsa per il Quirinale. Il combinato disposto “partiti-Mattarella” gli ha però sbarrato la strada. Il sogno è sfumato. Ciò che non aveva però previsto è stata l’irraggiungibile capacità dei Cinquestelle nella straordinaria espressione tragicomica del duo Di Maio-Conte, di rendergli la vita, dopo averla così resa agli italiani, un incubo.




Posted on: 2022/07/17, by :