Non c’è vittoria militare senza primato politico
di Germana Tappero Merlo|
|Le guerre si combattono per imporre un progetto politico. Se alla fine prevale quello del tuo nemico, hai perso. La narrazione che dai di una tua débâcle, il rimarcare le responsabilità militari piuttosto che politiche, osannare i tuoi eroi morti, tutto può servire ad addolcire l’amarezza, ma non esiste, una ‘vittoria militare’ fuori dal contesto politico. Puoi vincere battaglie, puoi ammassare cadaveri di nemici, come facevano gli americani in Vietnam per mascherare la grave sconfitta strategica. Ma anche il risultato tattico di questo che era il body count, valido sino alla fine dell’ultimo conflitto mondiale – e, forse, neanche più allora – rimane, di fatto e alla fine, irrilevante se non puoi portare avanti i tuoi progetti politici.
Che sia la guerra al terrore, l’esportare democrazia, il salvaguardare i diritti di donne e minoranze, se al tuo voltare la schiena e ritornare nella tua confort zone occidentale perché quella guerra è costosa, non paga l’opinione pubblica o quel momento elettorale, e tutto torna come prima o addirittura peggio di prima, hai semplicemente perso. E’ duro, umiliante ma occorre farsene una ragione. E la natura delle nuove guerre moderne non aiuta a comprendere questo semplice assioma che, appunto, non esiste vittoria militare fuori da un contesto politico che hai scelto di imporre al tuo nemico.
Come le guerre moderne non vengono più dichiarate da altisonanti comunicati al governo e al popolo nemico tramite l’invio di tremolanti ambasciatori, così non terminano più con trattati di pace, sorrisi a denti stretti e opportune strette di mano. Rarissime occasioni, oramai. Si interviene militarmente, a muso duro, direttamente in situazioni di instabilità, sovente di propria iniziativa, trascinando magari alleati poco convinti. Si inviano sul campo rinforzi ai propri alleati del momento, salvo poi cambiare quelle alleanze, in un gioco di variabilità politiche e tattiche proprie di un sistema internazionale che non ha ancora trovato il suo equilibrio dalla fine della Guerra fredda.
Tutto ciò ispira incostanza ed alimenta incertezze, quando invece è nella natura appunto delle nuove guerre post-ideologiche. E la moltiplicazione di soggetti, di potenze regionali o mondiali, o anche solo locali, non facilita il compito di capire chi è il vincitore e chi lo sconfitto. Perché i nuovi attori sul campo non sono più solo gli Stati, i governi, entità istituzionali chiare e precise. Si tratta sovente di attori-non statali e forze di insorgenza, che per alcuni sono ‘terroristi’, per altri “guerrieri per la libertà” oppure, appunto, combattenti per un progetto che si sente più nelle proprie corde rispetto a concetti, come la democrazia ad esempio, propri di una cultura lontana.
Ecco perché poi lo stesso significato di ‘pace’ perde consistenza: è per lo più tregua o un prolungato ‘cessate il fuoco’, ma sempre più raramente si firmano trattati di pace duraturi. E si concretizza così quello stato di conflittualità permanente in cui viviamo e che ormai domina su tutti gli scenari, e non solo quelli di grave instabilità che definire post-bellici è relativo, dubbio e sempre ingannevole la propria e l’altrui opinione pubblica. Non meraviglia, quindi, che gli sforzi per un mantenimento della pace o per rinforzarla, producano nulla o, al massimo, effetti positivi del tutto fugaci e quindi effimeri.
Gli esempi nell’ultimo ventennio si sprecano: dalla guerra al terrorismo jihadista in Afghanistan e Iraq, all’esportare appunto la democrazia in Siria, sino agli interventi ‘umanitari’ come quello nella Libia di Gheddafi, tutti hanno chiuso male un capitolo e riaperto mille altri fronti di conflitti e sofferenze. E sovente, com’è capitato in Afghanistan e ancora in Iraq, la sola ragione per mantenere a lungo le proprie truppe è quella più banale, ossia non riconoscere la propria sconfitta, l’impossibilità di raggiungere gli obiettivi che avevano mosso i boots on the ground.
Sono le nuove guerre anche nell’uso massiccio di tecnologia, combattute con la presunzione di colpire chirurgicamente il nemico, per cui asettiche perché l’obiettivo è mantenere intatta l’immagine di una vittoria sul nemico senza spargere il sangue dei propri soldati, mentre nel contempo si giustificano le vittime innocenti degli altri, in quei targeted killings, come ‘danni collaterali’. La presunzione di superiorità tattica che contraddistingue questo approccio porta all’ignoranza delle conseguenze strategiche: e ci si meraviglia che là dove si è andati pesanti con droni e omicidi mirati, che poi appunto non lo sono mai, crescano la rabbia e il livore verso chi si è macchiato di quelle morti innocenti.
Se nel Pakistan è nato e cresciuto un sentimento antiamericano e antioccidentale che da tempo sostiene i talebani afghani, una fra le tante risposte va appunto cercata anche nelle vittime civili degli attacchi con i droni nel suo Waziristan. Certamente si tratta del santuario pachistano di al-Qaeda che andava smantellato ma che sopravvive, nonostante l’intensificarsi degli attacchi US, perché questi non hanno disposto di una strategia diplomatica parallela, senza cercare quindi strade alternative all’impiego della forza, sottovalutandone gli effetti deleteri sui civili. Lo stesso è accaduto e sta accadendo in Somalia e in Yemen. E’ vittoria tutto ciò? Parrebbe dare ragione a Jean Paul Sartre quando affermava che “Una volta che ascolti i dettagli della vittoria, è difficile distinguerla dalla sconfitta”.
Le interpretazioni dei fatti afghani ora si sprecano, e fiumi di inchiostro verranno versati al riguardo e riempiranno pagine di analisi militari e di libri di storia. Di fatto, si sta solo perpetuando instabilità e conflitti, anche perché si è perso il senso della mediazione e la percezione che ne deriva è che l’uso della forza privo di una strategia valida non solo conduce alla sconfitta sul campo, ma alla crisi esistenziale di certe alleanze. E se gli Usa scelgono di agire da soli, la Nato e magari anche l’Unione Europea sappiano almeno cogliere queste lezioni per la loro sopravvivenza e sicurezza, e forse la vittoria sui nemici dei nostri valori non sarà utopia.
Posted on: 2021/09/08, by : admin
Che sia la guerra al terrore, l’esportare democrazia, il salvaguardare i diritti di donne e minoranze, se al tuo voltare la schiena e ritornare nella tua confort zone occidentale perché quella guerra è costosa, non paga l’opinione pubblica o quel momento elettorale, e tutto torna come prima o addirittura peggio di prima, hai semplicemente perso. E’ duro, umiliante ma occorre farsene una ragione. E la natura delle nuove guerre moderne non aiuta a comprendere questo semplice assioma che, appunto, non esiste vittoria militare fuori da un contesto politico che hai scelto di imporre al tuo nemico.
Come le guerre moderne non vengono più dichiarate da altisonanti comunicati al governo e al popolo nemico tramite l’invio di tremolanti ambasciatori, così non terminano più con trattati di pace, sorrisi a denti stretti e opportune strette di mano. Rarissime occasioni, oramai. Si interviene militarmente, a muso duro, direttamente in situazioni di instabilità, sovente di propria iniziativa, trascinando magari alleati poco convinti. Si inviano sul campo rinforzi ai propri alleati del momento, salvo poi cambiare quelle alleanze, in un gioco di variabilità politiche e tattiche proprie di un sistema internazionale che non ha ancora trovato il suo equilibrio dalla fine della Guerra fredda.
Tutto ciò ispira incostanza ed alimenta incertezze, quando invece è nella natura appunto delle nuove guerre post-ideologiche. E la moltiplicazione di soggetti, di potenze regionali o mondiali, o anche solo locali, non facilita il compito di capire chi è il vincitore e chi lo sconfitto. Perché i nuovi attori sul campo non sono più solo gli Stati, i governi, entità istituzionali chiare e precise. Si tratta sovente di attori-non statali e forze di insorgenza, che per alcuni sono ‘terroristi’, per altri “guerrieri per la libertà” oppure, appunto, combattenti per un progetto che si sente più nelle proprie corde rispetto a concetti, come la democrazia ad esempio, propri di una cultura lontana.
Ecco perché poi lo stesso significato di ‘pace’ perde consistenza: è per lo più tregua o un prolungato ‘cessate il fuoco’, ma sempre più raramente si firmano trattati di pace duraturi. E si concretizza così quello stato di conflittualità permanente in cui viviamo e che ormai domina su tutti gli scenari, e non solo quelli di grave instabilità che definire post-bellici è relativo, dubbio e sempre ingannevole la propria e l’altrui opinione pubblica. Non meraviglia, quindi, che gli sforzi per un mantenimento della pace o per rinforzarla, producano nulla o, al massimo, effetti positivi del tutto fugaci e quindi effimeri.
Gli esempi nell’ultimo ventennio si sprecano: dalla guerra al terrorismo jihadista in Afghanistan e Iraq, all’esportare appunto la democrazia in Siria, sino agli interventi ‘umanitari’ come quello nella Libia di Gheddafi, tutti hanno chiuso male un capitolo e riaperto mille altri fronti di conflitti e sofferenze. E sovente, com’è capitato in Afghanistan e ancora in Iraq, la sola ragione per mantenere a lungo le proprie truppe è quella più banale, ossia non riconoscere la propria sconfitta, l’impossibilità di raggiungere gli obiettivi che avevano mosso i boots on the ground.
Sono le nuove guerre anche nell’uso massiccio di tecnologia, combattute con la presunzione di colpire chirurgicamente il nemico, per cui asettiche perché l’obiettivo è mantenere intatta l’immagine di una vittoria sul nemico senza spargere il sangue dei propri soldati, mentre nel contempo si giustificano le vittime innocenti degli altri, in quei targeted killings, come ‘danni collaterali’. La presunzione di superiorità tattica che contraddistingue questo approccio porta all’ignoranza delle conseguenze strategiche: e ci si meraviglia che là dove si è andati pesanti con droni e omicidi mirati, che poi appunto non lo sono mai, crescano la rabbia e il livore verso chi si è macchiato di quelle morti innocenti.
Se nel Pakistan è nato e cresciuto un sentimento antiamericano e antioccidentale che da tempo sostiene i talebani afghani, una fra le tante risposte va appunto cercata anche nelle vittime civili degli attacchi con i droni nel suo Waziristan. Certamente si tratta del santuario pachistano di al-Qaeda che andava smantellato ma che sopravvive, nonostante l’intensificarsi degli attacchi US, perché questi non hanno disposto di una strategia diplomatica parallela, senza cercare quindi strade alternative all’impiego della forza, sottovalutandone gli effetti deleteri sui civili. Lo stesso è accaduto e sta accadendo in Somalia e in Yemen. E’ vittoria tutto ciò? Parrebbe dare ragione a Jean Paul Sartre quando affermava che “Una volta che ascolti i dettagli della vittoria, è difficile distinguerla dalla sconfitta”.
Le interpretazioni dei fatti afghani ora si sprecano, e fiumi di inchiostro verranno versati al riguardo e riempiranno pagine di analisi militari e di libri di storia. Di fatto, si sta solo perpetuando instabilità e conflitti, anche perché si è perso il senso della mediazione e la percezione che ne deriva è che l’uso della forza privo di una strategia valida non solo conduce alla sconfitta sul campo, ma alla crisi esistenziale di certe alleanze. E se gli Usa scelgono di agire da soli, la Nato e magari anche l’Unione Europea sappiano almeno cogliere queste lezioni per la loro sopravvivenza e sicurezza, e forse la vittoria sui nemici dei nostri valori non sarà utopia.
Posted on: 2021/09/08, by : admin