Omicidio Regeni: per l’Egitto il tempo degli sconti è finito

di Michele Ruggiero|

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Ora, che fare nei confronti dell’Egitto e del suo regime incarnato dalla potente figura dell’ex generale al-Sisi? A domandarselo è l’opinione pubblica italiana sull’onda lunga della relazione finale della Commissione parlamentare d’inchiesta sull’omicidio di Giulio Regeni. Il prossimo 25 gennaio saranno sei anni dalla scomparsa del giovane ricercatore italiano, il cui corpo visibilmente offeso da violenze e torture venne ritrovato il 3 febbraio del 2016. La relazione della commissione d’inchiesta è stata votata all’unanimità e sono parole di aperta e dura condanna del regime egiziano e dei suoi apparati di sicurezza, responsabili della morte di Giulio, che all’epoca aveva 28 anni. In ultima analisi, il proficuo lavoro dei parlamentari capitalizza e canalizza il pensiero e la mobilitazione collettivi che hanno dato un’impronta visibile alla reazione della società italiana su una vicenda la cui trama è sempre meno oscura, ma i cui contorni sono sempre più dolorosi.

Ora, in questo “Che fare?”, dopo anni di cartelli esposti e lenzuola appese su anonimi balconi e su quelli delle istituzioni con la richiesta “Verità per Giulio”, e di espressioni di sincero affetto di milioni di madri italiane, la famiglia Regeni attende fiduciosa che dalle parole e dai gesti si passi alla concretezza delle iniziative, non soltanto diplomatiche. In ordine, che il Paese legale traduca ciò che il Paese reale non le ha mai negato con la vicinanza e la solidarietà per una tragedia che le autorità egiziane avrebbero potuto evitare, se Giulio non fosse stato usato deliberatamente e con perfidia criminale come una inconsapevole “pedina sacrificale” nei levantini giochi interni del Cairo.

L’operazione che si richiede al Paese legale è però complessa e complicata. Su palazzo Chigi e sulla Farnesina grava una politica estera da decenni strabica. Uno strabismo con cui si cerca di far coesistere tutto e il contrario di tutto, interessi generali e particolari, strategia nazionale e alleanze europee, in assenza di una visione internazionale condivisa dagli Stati dell’Unione Europea a Bruxelles, in un quadro di obblighi Nato che contemperi (altro fattore di strabismo) la riduzione del budget per spese militari e il contemporaneo mantenimento delle quote export di armi da guerra, per la salute della nostra bilancia dei pagamenti. Esportazioni made in Italy che prendono le vie “carovaniere” del Nord Africa e del Medio Oriente, armi destinate a Paesi che si fregiano dell’Oscar per la migliore interpretazione nella violazione dei diritti umani (Egitto e monarchie del Golfo), dei diritti dei popoli (palestinesi, saharawi, curdi), e verso aree di tensioni e conflitti interni e interetnici (Siria, Yemen, Libia, Irak).1

Lo strabismo che contraddistingue la politica estera, per la verità, ha una dimensione planetaria e non è una prerogativa italiana. Nessun paese dell’Occidente ne è immune e se allarghiamo il discorso a Russia, Cina e India, la trappola dialettica di “tutti colpevoli, nessun colpevole” scatta alla velocità della luce e con essa cadrebbe anche il sipario sul futuro dell’umanità, esattamente come avviene per la prospettiva del riscaldamento globale, se non si cambia la strategia generale. Quella strategia generale che decomplicherebbe situazioni oggettive che, se si fa baricentro sull’Egitto, come nel caso Regeni, corrono in parallelo agli interessi commerciali del canale di Suez, a est del Cairo riflettono il surriscaldamento delle evoluzioni geopolitiche del Medio Oriente e del Centro Asia, ad ovest, le fibrillazioni in Libia, i precari equilibri in Tunisia e Algeria, la solidità della monarchia marocchina, a sud, il crescendo delle complicazioni e guerre dell’Africa subsahariana. Insomma, un rompicapo. Dunque, chi ha il potere e la volontà di cambiare la strategia generale per il mondo? O se vogliamo, come si va a fondo delle cose per non andare a fondo?

In attesa di una risposta, l’Italia dovrebbe scrollarsi di dosso la sua mollezza atavica (“Franza o Spagna purché se magna”) e restituire ai suoi cittadini un senso di sicurezza che deve valere all’interno quanto all’esterno. Si tratta di una questione di identità nazionale e di cultura, non dimentichiamolo. Con i prepotenti – l’Egitto e al-Sisi si sono rivelati tali nascondendo la verità sulla fine di Giulio Regeni – non si discute, non ci si arrende, si studiano le contromisure più efficaci e si reagisce. Quotidianamente. Allora, ogni giorno, a voce e per iscritto, si ricorda in tutte le sedi del mondo che l’Egitto non è più un paese accogliente per noi italiani e forse non lo è per nessuno degli altri popoli della Terra; che i suoi governanti sono inaffidabili e implicati nel delitto di un giovane studioso di 28 anni; che i servizi segreti egiziani potrebbero riservare ai loro connazionali lo stesso “trattamento” riservato ad un ospite straniero; che il governo egiziano è più incline alle bugie che alle verità, un atteggiamento che di riflesso non getta una luce favorevole e confortante sui diplomatici egiziani che rappresentano il loro paese all’estero.

In caso contrario, se non si riporta a casa la “verità per Giulio”, mai si riporterà a casa Patrick Zaky, lo studente dell’Università di Bologna da oltre due anni in un carcere egiziano in attesa di giudizio per un reato fantasma. Potrà sembrare retorico, ma nessuno va lasciato indietro: se non è ancora possibile cambiare la strategia generale, questo non ci deve impedire di cambiare noi stessi, di ritrovare lo slancio di combattere per ideali e principi e l’orgoglio di essere una grande e fiera nazione che crede nei diritti civili e rifiuta la barbarie dei violenti. Si deve andare a fondo per non andare a fondo. Sempre.

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1http://www.osservatoriodiritti.it





Posted on: 2021/12/02, by :