Palestina, alle radici della guerra senza fine
di Stefano Marengo|
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Mai come in questo periodo la questione palestinese è stata oggetto di prese di posizione blande da parte delle classi dirigenti occidentali. Leader politici di ogni schieramento hanno dato fiato a una frusta retorica dichiarando la loro “equidistanza” in una “vicenda complessa” e invitando a “superare le incomprensioni”, a riprendere il “processo di pace” e la “soluzione dei due stati”. In ultima analisi, però, parole senza prospettiva per una situazione sul campo che non è il frutto di qualche contrapposizione occasionale, ma che affonda le sue radici in una lunga storia di spoliazione ed oppressione del popolo palestinese.
Nei giorni scorsi si commemorava il settantatreesimo anniversario della Nakba, la “catastrofe” del 1948. In quell’anno, nei mesi che precedettero e in quelli che seguirono la dichiarazione di indipendenza dello stato di Israele e il primo conflitto arabo-israeliano, le truppe sioniste espulsero dal loro territorio oltre 750mila palestinesi (la metà della popolazione araba totale della Palestina storica) e rasero al suolo metà dei loro villaggi (circa 500). Si trattò di una grande operazione di pulizia etnica a lungo progettata dalla dirigenza sionista e volta a creare, all’interno di Israele, una chiara maggioranza demografica ebraica. Obiettivo che fu sostanzialmente raggiunto: la presenza palestinese nel Paese, nel 1949, si era ridotta al 10-15% della popolazione totale. Gli oltre 750mila espulsi trovarono invece rifugio in decine di campi profughi nella striscia di Gaza (allora sotto amministrazione egiziana), in Cisgiordania e a Gerusalemme est (sotto amministrazione giordana) e nei confinanti stati del Medio Oriente (Egitto, Giordania, Libano e Siria).
Già nel dicembre del 1948 le Nazioni Unite, messe di fonte a questi eventi drammatici, avevano adottato una risoluzione (la 194) che sanciva il diritto al ritorno dei rifugiati nelle loro case e nelle loro terre – una posizione ribadita ogni anno nei decenni successivi. Fino a oggi, tuttavia, quelle disposizioni sono rimaste soltanto sulla carta. Israele, infatti, non le attuò né nel 1948, né in seguito. Nel corso degli anni Cinquanta, inoltre, la Knesset (il parlamento israeliano) approvò una serie di leggi per espropriare le proprietà palestinesi e riassegnarle a cittadini di “nazionalità ebraica”, con il risultato che le agenzie israeliane preposte a queste operazioni si ritrovarono quasi da un giorno all’altro a disporre di oltre il 90% della terra a fronte del 6-7% che possedevano prima del 1948. Per i rifugiati palestinesi incominciò, per contro, un dramma senza fine: la gran parte dei loro discendenti (una popolazione di 5,6 milioni di persone, secondo le stime dell’ONU) vive ancora nei campi profughi, spesso in condizione di apolidia, quasi sempre in stato di deprivazione.
Meno di vent’anni dopo la Nakba, la condizione dei palestinesi peggiorò ulteriormente. Con la “Guerra dei sei giorni” del giugno 1967 condotta dal generale Moshe Dayan, infatti, Israele sottrasse la penisola del Sinai all’Egitto e le alture del Golan alla Siria, ma soprattutto iniziò l’occupazione militare della Cisgiordania, di Gerusalemme est e della striscia di Gaza. Un’occupazione che dura ancora adesso, dopo 54 anni, con la parziale eccezione di Gaza, non più occupata formalmente dal 2005, ma sottoposta, a partire dal 2007, a uno stato di assedio permanente che impedisce ogni ingresso e ogni uscita dalla striscia via terra, via acqua e via aria. Anche in questo caso le Nazioni Unite adottarono già nel novembre 1967 una risoluzione (la 242) che imponeva a Israele il ritiro delle proprie truppe entro i confini del 1948 (la cosiddetta “green line”). Anche in questo caso, però, la risoluzione rimase lettera morta. I governi israeliani, anzi, scelsero di muoversi ulteriormente contro i principi del diritto internazionale, dapprima annettendo Gerusalemme est e, successivamente, avviando la colonizzazione dei territori occupati.
La colonizzazione – attività che verrà presto “monopolizzata” dai gruppi più fanatici della destra nazional religiosa – conoscerà varie fasi e andrà via via intensificandosi fino a oggi: i coloni sono attualmente oltre 700mila – circa 300mia a Gerusalemme est e circa 400mila in Cisgiordania. Tutto ciò per i palestinesi ha significato nuovi espropri e nuove espulsioni (il caso di Sheikh Jarrah non è che l’ultimo in ordine di tempo).
Anche il tristemente celebre muro di divisione che separa Israele dalla Cisgiordania è servito e serve a questo scopo. Lungo circa il doppio della green line, il tracciato di quella barriera si insinua per chilometri e chilometri all’interno della West Bank, sottraendo ulteriore terra e risorse (specialmente risorse idriche) ai palestinesi e confinando questi ultimi in scampoli di territorio sempre più angusti e con collegamenti quasi impossibili: oggi in Cisgiordania è normale impiegare anche due o tre ore di automobile per spostarsi tra centri abitanti distanti pochi chilometri l’uno dall’altro, e questo perché, lungo il tragitto, è necessario superare uno o più checkpoint presidiati militarmente dall’esercito israeliano.
È in base a questi fatti – espropriazione e segregazione – che oggi numerosi studiosi e militanti descrivono il sionismo come un progetto di “colonialismo di insediamento” (secondo la definizione elaborata da Patrick Wolfe) e Israele come un regime di apartheid. Per quanto concerne il primo punto, il colonialismo di insediamento non va confuso con il colonialismo classico. Mentre quest’ultimo è fondamentalmente volto allo sfruttamento economico dei territori colonizzati, le colonie di insediamento intendono radicare uno specifico gruppo etnico o nazionale in un nuovo territorio di cui viene rivendicata la proprietà esclusiva, il che comporta automaticamente l’espulsione – o, in generale, l’eliminazione – della popolazione autoctona. Esempi storici di ciò sono la colonizzazione degli Stati Uniti, del Canada, dell’Australia e del Sud Africa, e da quanto abbiamo visto è evidente che il colonialismo israeliano rientra perfettamente nella tipologia.
Per quanto concerne, invece, il regime di apartheid, si tratta di uno degli esiti possibili di un’impresa coloniale di insediamento. In questo caso, come mostra il paradigma sudafricano, la popolazione nativa viene confinata in alcune piccole aree geografiche, per lo più non comunicanti con il territorio occupato dalla “etnia dominante”, e scarsi o nulli sono i diritti civili e politici che le vengono riconosciuti. Ora, ciò che qui occorre rilevare è che Israele è descritto come un regime di apartheid non solo da militanti e accademici, ma anche dalle più importanti organizzazioni internazionali per i diritti umani. Solo qualche settimana fa, Human Rights Watch ha pubblicato un report il cui titolo, tradotto in italiano, è “Una soglia superata.
Le autorità israeliane e i crimini di apartheid e persecuzione”. Ancora prima di HRW, la più importante organizzazione umanitaria israeliana, B’Tselem, si era mossa nella stessa direzione con il suo resoconto “Un regime di supremazia ebraica dal fiume Giordano al mar Mediterraneo: questo è apartheid”. Si tratta di documenti che sono stati passati sotto silenzio dalla stampa occidentale, ma la cui importanza può difficilmente essere sovrastimata. Già la lettura delle parti introduttive restituisce un’idea precisa della miserevole condizione della popolazione palestinese, tali e tanti sono i soprusi e le violenze che essa subisce per mano dello Stato di Israele, comportamenti che si sono accentuati con il governo di Netanyhau.
Questo quadro è perfettamente esemplificato dalla legge sullo stato nazione approvata dalla Knesset nel 2018. In questa norma di rango costituzionale, vera e propria epitome dell’apartheid, il diritto all’autodeterminazione nella Palestina storica è riservato unicamente alla “nazione ebraica”. Ai membri di tutti gli altri gruppi nazionali viene riconosciuta, nella migliore delle ipotesi, soltanto una cittadinanza di serie B. E diciamo “nella migliore delle ipotesi” a ragion veduta: nessun reale diritto civile, politico o sociale è infatti garantito ai palestinesi che da decenni vivono sotto occupazione.
(Continua)
Posted on: 2021/05/22, by : admin
Nei giorni scorsi si commemorava il settantatreesimo anniversario della Nakba, la “catastrofe” del 1948. In quell’anno, nei mesi che precedettero e in quelli che seguirono la dichiarazione di indipendenza dello stato di Israele e il primo conflitto arabo-israeliano, le truppe sioniste espulsero dal loro territorio oltre 750mila palestinesi (la metà della popolazione araba totale della Palestina storica) e rasero al suolo metà dei loro villaggi (circa 500). Si trattò di una grande operazione di pulizia etnica a lungo progettata dalla dirigenza sionista e volta a creare, all’interno di Israele, una chiara maggioranza demografica ebraica. Obiettivo che fu sostanzialmente raggiunto: la presenza palestinese nel Paese, nel 1949, si era ridotta al 10-15% della popolazione totale. Gli oltre 750mila espulsi trovarono invece rifugio in decine di campi profughi nella striscia di Gaza (allora sotto amministrazione egiziana), in Cisgiordania e a Gerusalemme est (sotto amministrazione giordana) e nei confinanti stati del Medio Oriente (Egitto, Giordania, Libano e Siria).
Già nel dicembre del 1948 le Nazioni Unite, messe di fonte a questi eventi drammatici, avevano adottato una risoluzione (la 194) che sanciva il diritto al ritorno dei rifugiati nelle loro case e nelle loro terre – una posizione ribadita ogni anno nei decenni successivi. Fino a oggi, tuttavia, quelle disposizioni sono rimaste soltanto sulla carta. Israele, infatti, non le attuò né nel 1948, né in seguito. Nel corso degli anni Cinquanta, inoltre, la Knesset (il parlamento israeliano) approvò una serie di leggi per espropriare le proprietà palestinesi e riassegnarle a cittadini di “nazionalità ebraica”, con il risultato che le agenzie israeliane preposte a queste operazioni si ritrovarono quasi da un giorno all’altro a disporre di oltre il 90% della terra a fronte del 6-7% che possedevano prima del 1948. Per i rifugiati palestinesi incominciò, per contro, un dramma senza fine: la gran parte dei loro discendenti (una popolazione di 5,6 milioni di persone, secondo le stime dell’ONU) vive ancora nei campi profughi, spesso in condizione di apolidia, quasi sempre in stato di deprivazione.
Meno di vent’anni dopo la Nakba, la condizione dei palestinesi peggiorò ulteriormente. Con la “Guerra dei sei giorni” del giugno 1967 condotta dal generale Moshe Dayan, infatti, Israele sottrasse la penisola del Sinai all’Egitto e le alture del Golan alla Siria, ma soprattutto iniziò l’occupazione militare della Cisgiordania, di Gerusalemme est e della striscia di Gaza. Un’occupazione che dura ancora adesso, dopo 54 anni, con la parziale eccezione di Gaza, non più occupata formalmente dal 2005, ma sottoposta, a partire dal 2007, a uno stato di assedio permanente che impedisce ogni ingresso e ogni uscita dalla striscia via terra, via acqua e via aria. Anche in questo caso le Nazioni Unite adottarono già nel novembre 1967 una risoluzione (la 242) che imponeva a Israele il ritiro delle proprie truppe entro i confini del 1948 (la cosiddetta “green line”). Anche in questo caso, però, la risoluzione rimase lettera morta. I governi israeliani, anzi, scelsero di muoversi ulteriormente contro i principi del diritto internazionale, dapprima annettendo Gerusalemme est e, successivamente, avviando la colonizzazione dei territori occupati.
La colonizzazione – attività che verrà presto “monopolizzata” dai gruppi più fanatici della destra nazional religiosa – conoscerà varie fasi e andrà via via intensificandosi fino a oggi: i coloni sono attualmente oltre 700mila – circa 300mia a Gerusalemme est e circa 400mila in Cisgiordania. Tutto ciò per i palestinesi ha significato nuovi espropri e nuove espulsioni (il caso di Sheikh Jarrah non è che l’ultimo in ordine di tempo).
Anche il tristemente celebre muro di divisione che separa Israele dalla Cisgiordania è servito e serve a questo scopo. Lungo circa il doppio della green line, il tracciato di quella barriera si insinua per chilometri e chilometri all’interno della West Bank, sottraendo ulteriore terra e risorse (specialmente risorse idriche) ai palestinesi e confinando questi ultimi in scampoli di territorio sempre più angusti e con collegamenti quasi impossibili: oggi in Cisgiordania è normale impiegare anche due o tre ore di automobile per spostarsi tra centri abitanti distanti pochi chilometri l’uno dall’altro, e questo perché, lungo il tragitto, è necessario superare uno o più checkpoint presidiati militarmente dall’esercito israeliano.
È in base a questi fatti – espropriazione e segregazione – che oggi numerosi studiosi e militanti descrivono il sionismo come un progetto di “colonialismo di insediamento” (secondo la definizione elaborata da Patrick Wolfe) e Israele come un regime di apartheid. Per quanto concerne il primo punto, il colonialismo di insediamento non va confuso con il colonialismo classico. Mentre quest’ultimo è fondamentalmente volto allo sfruttamento economico dei territori colonizzati, le colonie di insediamento intendono radicare uno specifico gruppo etnico o nazionale in un nuovo territorio di cui viene rivendicata la proprietà esclusiva, il che comporta automaticamente l’espulsione – o, in generale, l’eliminazione – della popolazione autoctona. Esempi storici di ciò sono la colonizzazione degli Stati Uniti, del Canada, dell’Australia e del Sud Africa, e da quanto abbiamo visto è evidente che il colonialismo israeliano rientra perfettamente nella tipologia.
Per quanto concerne, invece, il regime di apartheid, si tratta di uno degli esiti possibili di un’impresa coloniale di insediamento. In questo caso, come mostra il paradigma sudafricano, la popolazione nativa viene confinata in alcune piccole aree geografiche, per lo più non comunicanti con il territorio occupato dalla “etnia dominante”, e scarsi o nulli sono i diritti civili e politici che le vengono riconosciuti. Ora, ciò che qui occorre rilevare è che Israele è descritto come un regime di apartheid non solo da militanti e accademici, ma anche dalle più importanti organizzazioni internazionali per i diritti umani. Solo qualche settimana fa, Human Rights Watch ha pubblicato un report il cui titolo, tradotto in italiano, è “Una soglia superata.
Le autorità israeliane e i crimini di apartheid e persecuzione”. Ancora prima di HRW, la più importante organizzazione umanitaria israeliana, B’Tselem, si era mossa nella stessa direzione con il suo resoconto “Un regime di supremazia ebraica dal fiume Giordano al mar Mediterraneo: questo è apartheid”. Si tratta di documenti che sono stati passati sotto silenzio dalla stampa occidentale, ma la cui importanza può difficilmente essere sovrastimata. Già la lettura delle parti introduttive restituisce un’idea precisa della miserevole condizione della popolazione palestinese, tali e tanti sono i soprusi e le violenze che essa subisce per mano dello Stato di Israele, comportamenti che si sono accentuati con il governo di Netanyhau.
Questo quadro è perfettamente esemplificato dalla legge sullo stato nazione approvata dalla Knesset nel 2018. In questa norma di rango costituzionale, vera e propria epitome dell’apartheid, il diritto all’autodeterminazione nella Palestina storica è riservato unicamente alla “nazione ebraica”. Ai membri di tutti gli altri gruppi nazionali viene riconosciuta, nella migliore delle ipotesi, soltanto una cittadinanza di serie B. E diciamo “nella migliore delle ipotesi” a ragion veduta: nessun reale diritto civile, politico o sociale è infatti garantito ai palestinesi che da decenni vivono sotto occupazione.
(Continua)
Posted on: 2021/05/22, by : admin