Pandemia e diritti costituzionali

di Davide Rigallo |

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La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.

Costituzione della Repubblica italiana, art. 32

Mai come nell’emergenza sanitaria del Covid-19, la tutela della salute è stata affidata in forma così spropositata ai “doveri” dei cittadini, che si sono visti attribuire ai loro comportamenti (osservanti o, viceversa, trasgressivi delle disposizioni) la maggior responsabilità dell’andamento del contagio. Mai in precedenza avevamo assistito a un rovesciamento così netto del rapporto cittadino/Stato in materia di diritti fondamentali, al punto da domandarsi se lettera e, soprattutto, spirito della Costituzione siano effettivamente rispettati.

Nella ridda delle dichiarazioni politiche di queste settimane, la responsabilità del Sistema sanitario nazionale e delle sue diramazioni regionali nella garanzia delle cure ai cittadini è apparsa in subordine, come se si preferisse non guardare al malfunzionamento dello strumento principale che lo Stato ha nella tutela della salute. Eppure sono molti, troppi, i casi che ci mostrano come disfunzioni diventate endemiche nella sanità abbiano inciso drammaticamente nella gestione dell’epidemia e nell’alto numero di decessi che questa ha comportato. Basterebbe ricordare i posti-letto insufficienti nelle terapie intensive, i ritardi nelle diagnosi e nell’effettuazione dei tamponi, le mancate protezioni sanitarie per medici e infermieri, la drammatica situazione delle RSA, la percezione di “abbandono” che molti pazienti contagiati hanno testimoniato, l’irreperibilità di mascherine e guanti: un drammatico combinato di superficialità, impreparazione, de-finanziamenti in settori chiave, paradigmi sbagliati perseguiti con ostinazione, che si sono riversati tutti a danno dei “cittadini”, senza che vi sia stata, ad oggi, una chiara assunzione di responsabilità.

L’applicazione del lockdown – si badi bene: non il lockdown in sé, che rimane cosa dovuta – è forse la dimostrazione più chiara del ribaltamento del rapporto cittadini/Stato in questa emergenza. Accompagnato da una molteplicità di provvedimenti che non di rado hanno generato confusione e discrezionalità1, il lockdown è infatti apparso, per molti aspetti, un provvedimento di ordine pubblico, più che di emergenza sanitaria. Il controllo sugli spostamenti delle persone è risultato, in più casi, pesante, con effetti che sono ricaduti su semplici malcapitati o soggetti che, in una legislazione attenta, sarebbero dovuti essere esclusi (pensiamo ai senza fissa dimora). L’impiego di droni ed Esercito ha ulteriormente accresciuto l’immagine di uno Stato pronto a usare il suo potere “punitivo” in un momento che, invece, richiederebbe un incremento dell’assistenza e della solidarietà. La strategia di limitare orari di negozi, supermercati, uffici postali e banche per “scoraggiare” gli spostamenti non ha fatto che esasperare preesistenti carenze di servizi essenziali, di cui già soffre la cittadinanza (per tacere dei trasporti, ridotti a dismisura nel corso degli anni).

A fronte di questo quadro di disagi, nel tempo sospeso del lockdown un’azione di rafforzamento strutturale della sanità a tutti i livelli non sembra trovare l’urgenza di cui necessiterebbe. Governo, Regioni e amministrazioni locali appaiono infatti seguire con apprensione costante la curva dei contagi, intervenendo sulla contingenza dei dati senza maturare un disegno che faccia, in primo luogo, giustizia di quanto non ha funzionato nel sistema sanitario nazionale. Non si tratta di osservazioni polemiche. A tutti noi sono ben chiari gli obiettivi del cosiddetto “contenimento sociale” e del rallentamento dei contagi che, almeno in parte, ne è derivato. Ma, allo stesso tempo, sono forti le preoccupazioni per l’atteggiamento di uno Stato che voglia “assolversi” in anticipo da responsabilità oggettive in materia sanitaria, addossandole ai comportamenti più o meno “responsabili” dei cittadini.

Per uno Stato, affrontare l’emergenza sanitaria mediante strumenti di ordine pubblico, toccando libertà fondamentali come quella di spostamento, significa scostare l’ambito della propria azione e, in qualche misura, rinunciare al proprio dovere primario di rendere effettivo e certo il diritto alla salute per l’individuo a partire dal funzionamento delle strutture sanitarie. Parliamo di un atto di giustizia per la collettività, non di un’opzione politica, né di una tattica di corto raggio. E come tale andrebbe messo in atto.

Infine, un’ultima osservazione ancora sulle libertà fondamentali, anche sulla scia di quanto affermato in questi giorni dalla Presidente della Corte Costizionale, Marta Cartabia2. Occorre sempre stare attenti ai pericoli di una loro restrizione prolungata, soprattutto quando questa implica controlli e azioni sanzionatorie. Il tempo, in questi casi, è il fattore determinante che genera la percezione che una condizione di emergenza sia diventata un’ordinarietà imposta. Se questo accedesse, non è difficile immaginare uno scenario in cui le rivendicazioni di diritti fondamentali – pensiamo innanzitutto a quello di mobilità – diventino appannaggio di forze politiche e sociali che agiscono spregiudicatamente sull’onda di disagi diffusi e di facili consenso. A livello sociale, sarebbe un rischio dagli effetti incalcolabili. Per le forze politiche al Governo che si richiamano a valori “progressisti” sarebbe un rischio esiziale.



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