Pandemia, empatia e l’Italia laboratorio di guerra

di Germana Tappero Merlo |

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In un’intervista apparsa in questi giorni su un quotidiano nazionale, Kerry Kennedy, figlia di Bob e presidente di una fondazione sui diritti umani, parlava dell’Italia che “insegna al mondo come reagire con empatia”, fra citazioni del padre e di Martin Luther King. La conclusione era una dichiarazione di gratitudine all’Italia per l’esempio dato dal sacrificio del personale medico e dal richiamo all’unità prodigato dai cori dai balconi, da cui “traspare l’incredibile forza d’animo, coraggio e umanità del popolo italiano”. Concludeva che tutto ciò era un invito globale alla solidarietà e al senso del bene comune. Parole di ringraziamento, speranza ed ottimismo per il futuro.

Mi è capitato poi di leggere analisi interpretative di quel che sta accadendo alla luce delle relazioni internazionali. E la musica è cambiata totalmente. Al centro sempre la pandemia del Covid-19, e in particolare gli aiuti all’Italia dalla Cina e dagli Stati Uniti – almeno fino a quando l’amministrazione Trump non ha preso vera coscienza di quel che stava succedendo anche nel loro Paese – e le parole dominanti erano “nuova guerra fredda fra Cina e Stati Uniti” con l’“Italia vero e proprio laboratorio di guerra”. In pratica, e per alcuni osservatori, la pandemia ha accentuato la competitività fra quei due soggetti e il nodo ruota anche attorno alle scelte italiane circa la Via della Seta, la nostra disponibilità ai loro investimenti nei nostri porti e nelle nostre infrastrutture, con un ruolo dominante il futuro del 5G. Insomma, l’Italia che, con altri Paesi, è considerata una delle grandi porte dell’Oriente in Europa, gioca una parte strategica nel progetto geopolitico di Pechino. La beneficienza cinese e statunitense sarebbe quindi espressione di un braccio di ferro fra i due, finalizzata esclusivamente a vincere al tavolo da gioco dell’influenza politica nel cuore dell’Europa, con l’Italia al centro della partita e, per alcuni, trofeo da agguantare. Lascio da parte considerazioni sulle scelte politiche internazionali di questo governo. Ci sarà tempo dopo, ad emergenza chiusa e ad urne aperte.

Tuttavia, quelle analisi e la lettura dell’intervista a Kerry Kennedy mi hanno ricordato una mia esperienza di alcuni anni fa. Venni chiamata, infatti, con altri esperti di settori differenti, a partecipare a un simposio internazionale per discutere dell’empatia come atteggiamento nel proprio ambito professionale. Nell’occasione era presente Giacomo Rizzolatti, neuroscienziato e scopritore dei “neuroni a specchio”, una acquisizione che pone una base fisiologica all’empatia. Mi sentivo, però, fuori ruolo. Non nascondo che ero alquanto in difficoltà, perché è pressoché impossibile poter individuare rapporti empatici nelle relazioni internazionali violente, oggetto delle mie analisi come professionista della sicurezza. Tuttavia riuscii ad argomentare in base alla mia esperienza tanto che, a conferenza finita, passai un paio d’ore a rispondere alla curiosità di Rizzolatti circa la gestione delle tensioni e non solo psicologiche in un contesto bellico o per atti di terrorismo.

La conflittualità è, tuttavia, per sua natura la negazione dell’empatia. Può e deve esserci nella fase di preparazione di una strategia militare e ancor più nel contrasto al terrorismo, perché ‘pensa come ad un terrorista’ è la prima regola che deve seguire chi è chiamato a contrastare fenomeni eversivi. Tuttavia, l’azione terroristica, ancor più che una guerra convenzionale, è totalmente priva di empatia: è infatti la massima espressione di egoismo violento, che coglie improvvisamente obiettivi indifesi. Priva di empatia è però anche la logica che sottostà ad una guerra combattuta solo diplomaticamente, come la guerra fredda propria del secolo scorso, quella stessa che sembra ritornare in auge ora fra Stati Uniti e Cina fra pandemia, accuse reciproche e competizione per influenze economiche, commerciali e di sicurezza. È la logica che impone un mondo diviso esattamente fra un “noi” e un “loro”, e quindi esclusivo di una muscolosa e prepotente dialettica del “o con noi o contro di noi”. L’empatia è qui, di conseguenza, totalmente fuori gioco.

Nell’odierno contesto così problematico, il vecchio metodo di frizione proprio della Guerra fredda e soprattutto di chi ne è risultato vittorioso, rischia però di non essere più adeguato: è diventato imperativo infatti, che per uscire da situazioni conflittuali (Siria docet) e per la moltitudine dei soggetti coinvolti, sia ora necessario imporsi un processo empatico. Non è più sufficiente mostrare o usare la forza, ma sta diventando obbligatorio tentare di farsi carico anche delle aspettative di coloro che ora sono gli antagonisti. Si tratta della sfida più difficile cui è chiamato il mondo occidentale, perché è costretto a rivedere completamente il suo approccio alle relazioni internazionali, siano diplomatiche, commerciali o belliche: quelle stesse relazioni che ancora oggi poggiano quasi esclusivamente sull’uso o anche solo sulla minaccia dell’uso della forza militare che si sa di possedere in misura maggiore, ma che, fino ad ora, non si è dimostrata risolutiva, come testimoniano gli scenari siriano, libico e afghano, o la guerra globale al terrorismo.




Posted on: 2020/03/23, by :