Pensioni: l’ultima proposta (a fil di voce) di Draghi
di Emanuele Davide Ruffino|
|Seppur sottovoce, quasi criptata, la riforma delle pensioni si muove, anche se rispecchia le contraddizioni decisionali del nostro sistema emerse durante il voto per il Quirinale. In particolare, l’abitudine a contrastare le altrui proposte e soluzioni, devitalizzando però anche una convergenza unitaria basata su principi certi. Per le pensioni, però, il rischio che il sistema salti non è così remoto.
Il governo Draghi, non trovando un accordo politico di ampio respiro, ha approvato una norma (quota 102) con validità di un solo anno nell’attesa di tempi migliori. L’ultima proposta: offrire un’opportunità in più a tutti i lavoratori di poter andare in pensione con un taglio intorno al 3% della quota retributiva dell’assegno per ogni anno d’anticipo, rispetto alla soglia di vecchiaia, avanzata da Michele Reitano della Commissione tecnica istituita dal ministero del Lavoro, presentata al C.I.V. – Consiglio di Indirizzo e Vigilanza dell’INPS. In estrema sintesi, partendo da un’età minima (non ancora indicata), si permetterebbe l’uscita anticipata a discrezione del lavoratore. Nella proposta si sottolinea anche l’esistenza di troppe «scappatoie» nel sistema previdenziale verso la pensione anticipata. Un problema non secondario per il Paese.
I dati appena pubblicati dall’INPS rilevano che nel 2021 sono andate in pensione 815.461, a fronte di 864.699 liquidate nel 2020 (un calo del 6% netto) e che il costo di quota 100 è stato mediamente pari a 3 miliardi annui (decisamente inferiore alla spesa complessiva preventivata in 46,3 Miliardi). Dunque, Draghi ha concesso un anno di tempo ponendo però un limite: la sostenibilità del sistema. In altre parole, se si concede qualche cosa ad una categoria, bisogna toglierla ad un’altra. L’unica via di uscita è quella di separare quanto maturato virtualmente a livello retributivo, da quanto maturato oggettivamente a livello contributivo.
Nella giungla delle pensioni, l’età media con cui ci si ritira dal lavoro è intorno ai 64 anni per gli uomini e poco più di 63 per le donne, ma con significative differenze dettate dalle “annate” in cui si è nato ed altre dettate da situazioni meritorie (stato di salute, tipo di lavoro svolto, difficoltà occupazionali, carichi familiari) ma non sempre attuate correttamente. Questa eterogeneità non giova alla funzionalità del sistema: il momento di pensionarsi deve essere il più flessibile possibile per rispondere alle diverse esigenze personali e delle imprese, senza però inficiare la sostenibilità dei conti pubblici.
Il problema non sembra però interessare troppo i mass media che infatti riservano poco spazio all’argomento, limitandosi a riportare le proposte, alcune delle quali demagogiche. Il problema riguarda l’impostazione stessa del sistema che non può impedire ad un soggetto di fruire, come preferisce, dell’operato del suo lavoro (già pesantemente vessato dall’imposizione fiscale) senza però gravare sui conti dello Stato. I contributi versati dai lavoratori rischiano di essere assorbiti da meccanismi incontrollati e poco trasparenti sfuggendo alla disponibilità dei singoli, rischiando d’inficiare la libertà economica degli individui.
L’ipotesi di una riduzione del 3% per ogni anno di anticipo rispetto all’età legale compenserebbe, in modo attuarialmente equo, il vantaggio della sua percezione anticipata dei contributi versati. Nella relazione si legge che una misura di questo tipo offrirebbe un’opportunità in più a tutti i lavoratori, indipendentemente dalla loro carriera e senza aggravi per i conti pubblici, nonché vivacizzare il mercato del lavoro che in Italia si presenta tra i più rigidi d’Europa.
Posted on: 2022/01/29, by : admin