Piccola storia in tempi di Coronavirus
La “seconda volta”: aspetti emotivi delle recidive

di Stefano Cavalitto |

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Ebbene sì, possiamo dire che siamo travolti dalla cosiddetta seconda ondata e siamo entrati in una nuova chiusura della nostra vita, anche se parziale. Lo avevamo ripetuto nei mesi scorsi che poteva accadere, ma tale ripetizione, a volte addirittura ossessiva, spesso aveva la funzione più o meno consapevole di una sorta di scaramanzia, di mantra apotropaico, di espressione rituale per allontanarne la paura e il possibile effettivo avverarsi del ritorno massiccio dei contagi. In effetti il ritorno massiccio del virus ora è una realtà che ci costringe a puntuali bollettini serali che recitano i numeri dei contagi e dei decessi (si sente parlare meno di guariti, chissà come mai?), mentre le notizie riportano l’attenzione su reparti di terapia intensiva quasi esauriti nei loro posti letto. Un esaurimento diventato anche condizione esistenziale del personale curante che percepisce in progressiva diminuzione il livello di energia a disposizione nella lotta al virus. Poi c’è l’altra faccia della medaglia: l’esaurimento in senso letterale del numero dei medici, poiché non pochi di quelli presenti in “prima linea” durante i mesi scorsi hanno chiesto il trasferimento o addirittura hanno smesso il camice per scegliere un’altra strada professionale e di vita. Torniamo a sentire in lontananza sirene di ambulanze, forse favorite dalla diminuzione del traffico serale dovuto al coprifuoco e dall’abbassarsi del relativo rumore di fondo. Sirene che ovviamente inquietano.

Nei momenti difficili emerge il disagio: personale, sociale, economico che si esprime anche nella protesta. Da una manifestazione pacifica a Torino, utilizzata e strumentalizzata poi dai “professionisti” della violenza, è emerso il grido “Libertà!, Libertà! Libertà!”. Qualcuno in questo momento non si sente libero, sebbene si sappia bene di non esserlo mai del tutto, a maggior ragione adesso, in cui la discussione sulla validità della parola diventa assai arduo per la portata stessa di tale termine. Ma il disagio attuale sembra proprio manifestarsi anche per una percezione di mancanza di libertà. Ora, la mancanza di libertà potrebbe essere chiamata, ad esempio, costrizione. Costrizione è ciò che ci opprime senza riserve, ci obbliga a ciò che non vorremmo e soprattutto a ciò che non capiamo: ci costringe a qualcosa di cui non condividiamo il senso. Ma anche di cui non abbiamo coscienza. Di cui non riusciamo ad avere coscienza. Di conseguenza non lo ammettiamo nel nostro panorama psichico. O esistenziale, se preferite.

Ora proverei ad usare anche un altro termine per descrivere la medesima situazione (sottolineo la medesima), ma con la possibilità di un punto di vista diverso. In questo caso mi verrebbe da chiamare vincolo tale costrizione. Provo a giustificarne il motivo: il vincolo evidenzia un legame. Il legame che ci unisce alla necessità che esso porta con sé. Nel momento in cui riusciamo a vedere tale costrizione come vincolo, forse la via della presa di coscienza di tale situazione come necessaria o comunque correlata ad uno stato di necessità diventa più percorribile. In questo momento, più che mai, non siamo liberi ed ognuno di noi vive sulla propria pelle le conseguenze di tale privazione di libertà. Ciò ora comporta anche un danno sociale ed economico e credo sia sensato che la comunità, per quel che è possibile, intervenga in soccorso di chi ne è maggiormente colpito. È un gesto di solidarietà, ma prima di tutto un gesto lungimirante. La circolazione del bene/benessere è sicuramente “nutriente” per il collettivo: citando Van der Leeuw, uno storico delle religioni olandese del secolo scorso, possiamo dire che se metto in circolo un “dono”, è probabile che in qualche modo questo tornerà. Il dono (o sacrificio) all’altro diventa una strategia di circolazione della “potenza”, delle possibilità. Questo può essere un punto fondamentale per un buon gradiente di coesione sociale.

Tale concezione della solidarietà è da vedersi anche in un senso che possiamo dire “preventivo” e cioè dovrebbe alimentare anche comportamenti che privando ciascuno di una certa dose di libertà (esempio: evitando gesti o comportamenti a rischio, come il non uso di dispositivi di protezione individuale, leggi mascherina), metta in circolo un potenziale di sicurezza maggiore rispetto al rischio di contagio. Dono, sacrificio, potenza/potenziale che prima o poi mi “tornerà”, mi verrà reso come contenimento e diminuzione delle possibilità anche di un mio contagio. Bene. Ora credo occorra riflettere su che cosa ci permette di accedere a tale visione dei rapporti che abbiamo chiamato “circolazione della potenza”, a tale circolarità del dono e quindi di potenziale benessere. Ci permette di accedere a tale visione delle cose proprio la capacità e possibilità di vedere e concepire la presenza del vincolo che ci lega, ci unisce in questa difficile e triste avventura. Vincolo, legame che in realtà ci lega l’un l’altro in assoluto e non solo nella situazione attuale, se non altro per la nostra esistenza di esseri sociali e relazionali.

Si sente dire in più contesti che l’epoca attuale è definibile come fondata sull’immagine e sul narcisismo… In effetti possiamo dire che sia una delle tante definizioni calzanti della contemporaneità. Cosa ci interessa di tale definizione? Ci interessa comprendere che ciò che definiamo come deriva narcisistica è proprio la nostra più o meno saltuaria incapacità e cecità nei confronti di tale legame (che a volte diventa vincolo…). È noto che il bel Narciso non riesce a vedere ed amare null’altro che se stesso riflesso nella pozza d’acqua di fronte a lui. Ma questo vuole dire che lo sguardo autocentrato esclude o nega proprio qualsiasi possibilità relazionale con l’altro. Esclude la possibilità di concepire il legame con l’altro e perciò la relazione stessa. Possiamo dire che sia questa, in nuce, l’essenza di ciò che chiamiamo narcisismo. In tale prospettiva, o meglio, in tale mancanza di prospettiva, il dono e la circolarità della potenza sopra descritta che ne deriva, non hanno possibilità di essere.

Quindi, per tornare al concetto (peraltro enorme, come detto) di libertà, quale libertà? Forse anche quella di essere libero di vedere l’altro come una parte di noi. Narciso, ricordiamo, si comporta così in seguito ad una punizione divina, è costretto a vedere solo la propria immagine e da questa rimanerne rapito. La cosiddetta seconda ondata dell’epidemia ci costringe a fare nuovamente i conti con la paura, l’impotenza e riapre la ferita (il trauma?) che pensavamo più o meno illusoriamente passato. Se un nemico nuovo spaventa per la sua dimensione sconosciuta, la ricaduta, la recidiva “traumatizza” proprio perché ne conosciamo la pericolosità ed insite sul versante della frustrazione e dell’impotenza. Siamo così chiamati a tenere accesa la speranza non come illusione, ma come risorsa profonda.

Ancora una considerazione. I passaggi descritti non sono certo paradigmi che possiamo fare nostri meccanicamente o solo con uno sforzo di volontà e non hanno intenzione di essere didascalici o men che mai “educativi”. Sono la descrizione, peraltro molto parziale e lacunosa, di qualcosa che potenzialmente condividiamo come esseri umani e che maturiamo anche nell’ambiente in cui ci è dato vivere, nelle relazioni sufficientemente buone all’interno delle quali poter sperimentare un vissuto di significativa reciprocità. Un vissuto di positivo rispecchiamento nelle relazioni che ci comprendono. Altrimenti continuiamo a cercare e ricercare, contemplandola, la nostra immagine nella pozza d’acqua di Narciso…

D’altronde, a differenza dei regimi totalitari, in cui i cambiamenti e le leggi interne che governano il sistema sono di natura assoluta e inappellabile, in democrazia le dinamiche sono più sfumate, maggiormente caotiche a volte, ma non assolutistiche. Di riflesso, anche sul piano psicologico, i cambiamenti, l’adeguarsi a nuove situazioni, se avviene per spostamenti parziali, a volte imperfetti, ma mai assoluti, seguono una modulazione funzionale ad una buona vita psichica. Un’imperfetta democrazia è sempre meglio di un perfetto assolutismo. Sia su di un piano sociale, che su di un piano psicologico.





Posted on: 2020/10/29, by :