Politica estera Usa: cambio di rotta per Biden

di Germana Tappero Merlo |

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I pilastri della politica estera del neo presidente statunitense Joe Biden portano l’etichetta dei 3D: Domestic, Deterrence, Democracy. Se il ruolo e il rafforzamento degli strumenti di deterrenza e la riscoperta della democrazia sono intuibili, non sono così immediati per ciò che riguarda quel ‘domestic’, che sta per ‘interno’. Eppure, proprio il ricucire gli strappi interni alla società americana e ridare vigore alla propria classe media, soprattutto in termini economici, secondo Biden, è il passo iniziale e strategico per colmare i vuoti creati e dilatati dall’amministrazione Trump.

Se anche prima di Trump, infatti, vi erano crepe nella società americana, emergeva comunque sempre un’identità chiara ed unita che è finita invece per sgretolarsi a colpi di tweet e atteggiamenti da reality show, come si conviene a un leader più da affari che in politica.

“La sicurezza economica è sicurezza nazionale”.

Nessuno mette in discussione gli ottimi risultati raggiunti a livello economico interno dall’amministrazione Trump: ma una great America again è molto, ma molto di più di indici di crescita positivi e finanza predatrice. E sarebbe bastato a Trump conoscere meglio chi ha inventato quel motto, i toni del dialogo usati e i mezzi per realizzarlo: quel Ronald Reagan che lo ha preceduto quarant’anni fa alla Casa Bianca e che vinse, a colpi di estenuanti incontri diplomatici e vera competizione politica leale, la Guerra fredda contro l’Unione Sovietica, aprendo spazi alla leadership mondiale americana impensabili sino ad allora.
Il trumpiano America first, di fatto, ha portato ad un’America alone, ossia a Stati Uniti indeboliti diplomaticamente, con scarsa o nulla credibilità e influenza politica internazionale, mettendo a rischio quella economica anche fuori da quei confini. Lo si è visto nel confronto fra Stati Uniti e Russia, ma soprattutto con la Cina, anche in territori strategici come l’ Asia Centrale e l’Africa. Un azzardo su ampi fronti, che ha portato Biden a ribadire ciò che ha sempre affermato con fermezza, ossia che ‘la sicurezza economica è sicurezza nazionale’. E come dargli torto. Ciò che teme di più la classe media statunitense che lo ha votato non è una possibile crisi economica da lockdown quanto perdere terreno in una competizione già ora affannata con il gigante asiatico, soprattutto per garantirsi risorse strategiche sempre più rare e fondamentali per la sopravvivenza di settori hi-tech e dell’IT.

La politica della deterrenza verso Cina e Russia

Da qui la deterrenza non militare ma per il contenimento della Cina nel suo allargarsi ad altre realtà, per riprendere il controllo dello sviluppo di settori strategici come l’IT appunto e, non da meno, anche per la difesa della proprietà intellettuale occidentale, minacciata da quella offensiva cinese che si teme spietata e prevaricatrice. Una deterrenza che Biden vuole attivare anche per una Russia contro cui propone l’aumento delle sanzioni e un potenziamento della Nato. Quella stessa Russia che, quando era vicepresidente di Obama, già ne denunciava l’assalto alle fondamenta della democrazia attraverso la violazione e manipolazione delle informazioni. Proprio quella democrazia liberale, tutta americana e occidentale, che Trump esaltava nei suoi tweet, ma che in fondo in fondo considerava – parole sue – ‘un esperimento fallito’. Di certo, e non per colpa di Trump, nell’ultimo decennio il processo democratico in molte regioni del mondo, anche quelle a noi vicine e travolte dalle primavere arabe come il Vicino Oriente e il Nord Africa, non si è completato ma ha vissuto convulsioni interne rovinose che hanno portato solo caos, guerre, terrorismo e addirittura totalitarismi, radicali e peggiori dei malvagi che hanno rimosso. Biden si propone così di rilanciare un fronte democratico internazionale, con l’aiuto dei vecchi alleati europei, che sembrano ora muoversi in ordine sparso, e riacquistare la loro fiducia e una più attiva collaborazione con Washington. È voler recuperare il multilateralismo nei rapporti fra Stati e fra questi e gli organismi sovranazionali, con un ruolo dominante degli Stati Uniti come arbitro nelle relazioni mondiali.

Il rilancio della salvaguardia dei diritti umani

Riproporre quindi un’America con quel posto at the head of the table dei negoziati delle guerre in corso (dal ritiro dall’Afghanistan, alla soluzione dei conflitti in Libia e Yemen), salvaguardando però accordi già fatti (come quelli di Abramo, fra Israele, EAU, Bahrein e Sudan; non rigettando Gerusalemme capitale e confermando il riconoscimento di un Golan israeliano), recuperando quelli interrotti o stracciati (fra i tanti, quello nucleare con Iran, come pure il ritiro statunitense da quelli INF, il trattato sulle forze nucleari a medio raggio), ma soprattutto rilanciando la salvaguardia dei diritti umani, come condizione fondamentale per la reciprocità nelle relazioni diplomatiche, anche e soprattutto al fine di arginare nuovi e vecchi autoritarismi. E qui l’America si gioca la carta più delicata della sua politica estera del dopo Trump. Perché quando si parla di diritti umani la cerchia dei trasgressori si amplia a dismisura, oltre ai tradizionali russi e cinesi, e con soggetti – fra i tanti, troppi – del calibro di Turchia, Arabia Saudita, Egitto, Iran: certamente non potenze mondiali, ma tutte in grado di giocare da attori regionali non trascurabili in scenari dal Vicino Oriente all’Africa. Porre condizioni di rispetto dei diritti umani in nome di una reciprocità nei rapporti diplomatici è cosa giusta se non fossero offuscati, in quella vasta regione, la fiducia e il rispetto per la leadership statunitense. Un’erosione, a dirla tutta, che non è dipesa solo da Trump, ma dalla traballante politica dello stop and go dell’amministrazione Obama, dal lasciar agire, da soli e senza alcuna rete di contenimento, attori del calibro dei Paesi del Vicino Oriente, così come quell’annunciare e poi non eseguire (come, esempio più tragico e conosciuto, con la linea rossa delle armi chimiche siriane), fra i più gravi errori di quell’amministrazione, che fece perdere credibilità agli Stati Uniti nell’intera regione mediorientale. Una credibilità poi ricucita lentamente da Trump ma che, per la brevità dei tempi presidenziali americani e la sua mancata rielezione, non è riuscito a completare.

L’altro fronte “caldo”: l’alleato… Erdogan

E poi vi è l’incognita turca: Ankara è quella che più teme l’imposizione del rispetto della democrazia e dei diritti umani nelle relazioni bilaterali con Washington, anche perché se un tempo la politica estera era per Erdogan una cassa di risonanza dei suoi successi interni, ora gli serve per ricompattare consenso e far dimenticare la grave crisi economica. Non può quindi rischiare sanzioni economiche: per Erdogan significherebbe implodere. Non può quindi permettersi limiti imposti dall’esterno, o meglio, non conformi ai suoi piani. Perché c’è ancora molto altro nelle ambizioni del sultano turco. Se la nuova amministrazione statunitense, per mancato rispetto di quei valori, dovesse cercare di contenere l’attuale rinascente Turchia nel ruolo di player regionale nel Mediterraneo, quali potrebbero essere le reazioni di un Erdogan sempre più proiettato con il suo soft-power alla conquista del mondo mussulmano, soprattutto radicale, dalla Libia alla Siria, e su, lungo i Balcani, sino nel cuore dell’Europa, e che opera anche per la sua stessa sopravvivenza? Biden è sicuramente un politico di razza e di lunga carriera. Tuttavia, la natura competitiva delle relazioni internazionali è mutata in questi anni perché si sono moltiplicati gli attori protagonisti, si sono radicalizzate ideologie e le loro prese di posizione locali e regionali con buona dosa di alleanze dalla geometria estremamente variabile. Giochi complessi per i quali, se si vuol partecipare e recuperare il terreno perduto in fiducia e credibilità, viene chiesta estrema abilità diplomatica, quel tessere i fili di un arazzo all’apparenza grossolano ma, di fatto, estremamente raffinato.

Una sfida ciclopica per il nuovo inquilino della Casa Bianca

La competizione fra Stati si è infatti incattivita e, ribadisco, non per colpa esclusiva di Trump: a quest’ultimo solo la responsabilità di aver sdoganato nella pratica della politica internazionale di un grande Paese democratico occidentale l’istinto naturale dell’uomo per la sopravvivenza, in cui l’unico modo per attaccare l’altro è l’assalto verbale, la negazione del diritto alla libertà di espressione e del confronto libero, sino al più becero sessismo. È il carattere violento proprio dell’istintività animale più che della razionalità umana. A Biden spetta questa sfida ciclopica, quella di riprendere toni più pacati sebbene decisi e intransigenti per rifondare veramente quella great America again che pare essere sfuggita a Trump ma ancor più e con maggior colpevolezza per via degli abominevoli errori dei suoi predecessori, da George W. Bush a Barack Obama. E’ in gioco la democrazia che noi occidentali, viziati da anni di pace, abbiamo dato per scontato che fosse solida e un punto di riferimento per il mondo intero. Ma ogni democrazia è vulnerabile e può essere sovvertita e, in un batter di ciglio, trasformarsi nella peggiore autocrazia.




Posted on: 2020/11/09, by :