Produttività: il vero male oscuro dell’Italia
di Emanuele Davide Ruffino
e Germana Zollesi |
Il richiamo della presidente Ursula Von Der Leyen, è solo l’ultimo che la Commissione Europea muove all’Italia per lo scarso livello di produttività conseguita. Non è solo un problema economico, ma presenta risvolti socio-politici ed etici la cui risoluzione non può più essere rinviata, se si vuole assicurare un futuro al nostro Paese. Superata l’abbuffata di spesa pubblica, resa possibile dallo stato di emergenza e dalla ghiotta opportunità di contrarre deficit (che nel settore pubblico, significa che qualcuno spende, altri pagheranno), bisognerà fare i conti per verificare se l’utilizzo delle risorse resesi disponibili sia servito a ristrutturare realmente il paese.
A leggere le cronache economiche, le relazioni ministeriali, regionali e della Corte dei Conti, le note integrative ai bilanci etc., il termine “produttività” appare di rado, come se dell’argomento fosse opportuno non parlarne. Lessicalmente il lemma identifica la relazione che intercorre tra la produzione e il collegato consumo di risorse. In particolare, per produttività marginale, s’intende il maggior prodotto che si ottiene aumentando l’impiego di un fattore produttivo di un’unità, mantenendo costante l’impiego degli altri fattori: si può così analizzare l’effetto che ogni variazione delle proporzioni, con cui sono combinati i fattori prodotti, esercita sulla quantità ottenibile di prodotto. Si parla di produttività del capitale o del lavoro (mettendo a rapporto le grandezze o le rispettive variazioni), ma anche di produttività di un intero processo (confrontandolo, in questi casi, con l’efficienza di processi similari).
Muovendosi dall’assunto che le risorse sono, per definizione, limitate e, di conseguenza, un loro utilizzo non razionale costituisce un deprecabile spreco, l’evitare gli scialacquamenti assume un valore etico, da tenere sistematicamente in considerazione. Non vi è religione o disciplina morale che non condanni lo spreco in quale forma di non rispetto verso la natura (in quanto tale o in quanto creazione di un’entità superiore). Lo spreco rappresenta infatti una delle più bieche forme di egoismo giacché non produce alcuna soddisfazione, ma solo una distribuzione di ricchezza fine a sé stessa.
Non si può dimenticare come, se da un lato non esiste sempre una “mano invisibile” che garantisca automaticamente l’ottimizzazione nell’uso delle risorse, dall’altro il trascurare questi aspetti conduce inevitabilmente al caos economico. Il non assoggettarsi automaticamente alle forze della selezione naturale, porta alla possibilità di accordo tra più contraenti per scaricare sulla società le singole inefficienze. La razionalità sociale, intrinseca dell’arte politica, non sempre permette di rilevare tempestivamente le inadeguatezze strutturali e di sostituire, con nuove soluzioni, l’esistente obsoleto culturalmente, prima ancora che tecnologicamente. Si creano, di conseguenza, condizioni per cui, il singolo gruppo ben organizzato (lobby) abbia molte più possibilità, rispetto alla comunità di far valere le proprie pretese.
Le informazioni riportate nei bilanci dovrebbero riflettere le possibilità di sopravvivenza di un’azienda e l’integrazione che riesce con la società stessa. In concreto, se i tradizionali bilanci contabili permettono di evidenziare la produttività per addetto, i bilanci immateriali (balance scorecard) sono chiamati a mettere in evidenza la produttività sociale, cioè come un soggetto o un’azienda contribuisce al funzionamento della società in cui è inserito. In passato, la spesa pubblica ha spesso supplito, agli scarsi livelli di produttività, accrescendo i servizi rivolti al welfare: con la globalizzazione, la produzione può però essere trasferita in altre parti del globo, obbligando la spesa pubblica assistenziale a crescere ulteriormente per garantire un sufficiente livello di domanda interna (ossia creare un’economia doppata da interventi non sempre apprezzati dalla collettività che poi deve sostenerne i costi). L’attuale frizione dei differenziali nella remunerazione del debito pubblico sottolinea come vi sono Paesi che riescono a produrre più di quanto consumano ed altri che per produrre hanno sempre più bisogno di iniezioni di denaro pubblico. I tetti imposti all’indebitamento (momentaneamente sospesi, causa Coronavirus) metteranno sempre più in crisi le economie deboli per un’evidente insostenibilità del sistema.
Secondo Keynes le politiche di sostegno alla domanda dovevano ricoprire un ruolo anticiclico, mentre sul finire del secolo scorso la spesa sociale ha assunto il ruolo di elemento rigido e sostanzialmente indipendente dell’andamento economico. Si sono così costituiti obblighi in capo alle finanze pubbliche che, per supplire la scarsa produttività, finiscono per bloccare le possibili alternative più efficaci. All’economia di mercato che premia la produttività, si sono sovrapposte, anche se in forme molte diverse, forme di statalismo e di burocrazia tendenti a creare una dipendenza obbligata dall’intervento pubblico. Non si tratta di un semplice ritorno al mercato, ma d’introdurre meccanismi decisionali che costringano il decisore pubblico e quello privato a muoversi per massimizzare le possibilità operative, liberando il sistema dai lacci e lacciuoli che rallentano le componenti produttive di esplicitare le proprie potenzialità.
Ursula Von Der Leyen parla di riforme strutturali, ma prima bisognerebbe riflettere se la classe dirigente, a tutti i livelli, sia in grado anche solo di concepire una qualche cosa al di fuori dell’asservimento a regole burocratiche o al potere di turno. La produttività non rappresenta di per sé un valore assoluto, ma deve confrontarsi con il comportamento assunto dai competitor. Diventa quindi indispensabile un benchmarket, inteso quale confronto del valore assunto dalla produttività in diversi contesti (eventualmente anche virtuali, tipo la produttività ombra), volto ad effettuare un confronto tra strutture analoghe, per individuare le aree di maggiore o minore efficienza, sollecitando ed indirizzando processi di miglioramento (cioè un processo imitativo verso un livello ottimale raggiungibile).
Posted on: 2020/12/07, by : admin
A leggere le cronache economiche, le relazioni ministeriali, regionali e della Corte dei Conti, le note integrative ai bilanci etc., il termine “produttività” appare di rado, come se dell’argomento fosse opportuno non parlarne. Lessicalmente il lemma identifica la relazione che intercorre tra la produzione e il collegato consumo di risorse. In particolare, per produttività marginale, s’intende il maggior prodotto che si ottiene aumentando l’impiego di un fattore produttivo di un’unità, mantenendo costante l’impiego degli altri fattori: si può così analizzare l’effetto che ogni variazione delle proporzioni, con cui sono combinati i fattori prodotti, esercita sulla quantità ottenibile di prodotto. Si parla di produttività del capitale o del lavoro (mettendo a rapporto le grandezze o le rispettive variazioni), ma anche di produttività di un intero processo (confrontandolo, in questi casi, con l’efficienza di processi similari).
Muovendosi dall’assunto che le risorse sono, per definizione, limitate e, di conseguenza, un loro utilizzo non razionale costituisce un deprecabile spreco, l’evitare gli scialacquamenti assume un valore etico, da tenere sistematicamente in considerazione. Non vi è religione o disciplina morale che non condanni lo spreco in quale forma di non rispetto verso la natura (in quanto tale o in quanto creazione di un’entità superiore). Lo spreco rappresenta infatti una delle più bieche forme di egoismo giacché non produce alcuna soddisfazione, ma solo una distribuzione di ricchezza fine a sé stessa.
Non si può dimenticare come, se da un lato non esiste sempre una “mano invisibile” che garantisca automaticamente l’ottimizzazione nell’uso delle risorse, dall’altro il trascurare questi aspetti conduce inevitabilmente al caos economico. Il non assoggettarsi automaticamente alle forze della selezione naturale, porta alla possibilità di accordo tra più contraenti per scaricare sulla società le singole inefficienze. La razionalità sociale, intrinseca dell’arte politica, non sempre permette di rilevare tempestivamente le inadeguatezze strutturali e di sostituire, con nuove soluzioni, l’esistente obsoleto culturalmente, prima ancora che tecnologicamente. Si creano, di conseguenza, condizioni per cui, il singolo gruppo ben organizzato (lobby) abbia molte più possibilità, rispetto alla comunità di far valere le proprie pretese.
Le informazioni riportate nei bilanci dovrebbero riflettere le possibilità di sopravvivenza di un’azienda e l’integrazione che riesce con la società stessa. In concreto, se i tradizionali bilanci contabili permettono di evidenziare la produttività per addetto, i bilanci immateriali (balance scorecard) sono chiamati a mettere in evidenza la produttività sociale, cioè come un soggetto o un’azienda contribuisce al funzionamento della società in cui è inserito. In passato, la spesa pubblica ha spesso supplito, agli scarsi livelli di produttività, accrescendo i servizi rivolti al welfare: con la globalizzazione, la produzione può però essere trasferita in altre parti del globo, obbligando la spesa pubblica assistenziale a crescere ulteriormente per garantire un sufficiente livello di domanda interna (ossia creare un’economia doppata da interventi non sempre apprezzati dalla collettività che poi deve sostenerne i costi). L’attuale frizione dei differenziali nella remunerazione del debito pubblico sottolinea come vi sono Paesi che riescono a produrre più di quanto consumano ed altri che per produrre hanno sempre più bisogno di iniezioni di denaro pubblico. I tetti imposti all’indebitamento (momentaneamente sospesi, causa Coronavirus) metteranno sempre più in crisi le economie deboli per un’evidente insostenibilità del sistema.
Secondo Keynes le politiche di sostegno alla domanda dovevano ricoprire un ruolo anticiclico, mentre sul finire del secolo scorso la spesa sociale ha assunto il ruolo di elemento rigido e sostanzialmente indipendente dell’andamento economico. Si sono così costituiti obblighi in capo alle finanze pubbliche che, per supplire la scarsa produttività, finiscono per bloccare le possibili alternative più efficaci. All’economia di mercato che premia la produttività, si sono sovrapposte, anche se in forme molte diverse, forme di statalismo e di burocrazia tendenti a creare una dipendenza obbligata dall’intervento pubblico. Non si tratta di un semplice ritorno al mercato, ma d’introdurre meccanismi decisionali che costringano il decisore pubblico e quello privato a muoversi per massimizzare le possibilità operative, liberando il sistema dai lacci e lacciuoli che rallentano le componenti produttive di esplicitare le proprie potenzialità.
Ursula Von Der Leyen parla di riforme strutturali, ma prima bisognerebbe riflettere se la classe dirigente, a tutti i livelli, sia in grado anche solo di concepire una qualche cosa al di fuori dell’asservimento a regole burocratiche o al potere di turno. La produttività non rappresenta di per sé un valore assoluto, ma deve confrontarsi con il comportamento assunto dai competitor. Diventa quindi indispensabile un benchmarket, inteso quale confronto del valore assunto dalla produttività in diversi contesti (eventualmente anche virtuali, tipo la produttività ombra), volto ad effettuare un confronto tra strutture analoghe, per individuare le aree di maggiore o minore efficienza, sollecitando ed indirizzando processi di miglioramento (cioè un processo imitativo verso un livello ottimale raggiungibile).
Posted on: 2020/12/07, by : admin