Punture di spillo: l’inflazione non spinga in alto anche la cattiveria

di Pietro Terna|

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Cantava Francesco Guccini1 trent’anni fa: “l’inflazione però non finisce e ci rende cattivi”. La terribile inflazione degli anni ’70 e ’80 è poi finita. Ora ci risiamo?

Due notizie a confronto: dal Financial Times2 del 12 aprile “US inflation hits 8.5% after surge in petrol and food prices” e dal Sole 24 Ore sempre del 12 aprile “Titoli di Stato, tassi ai massimi – L’inflazione e le strette attese dalle banche centrali fanno salire i rendimenti: i Bund decennali arrivano a 0,82% (massimo dal 2015), i BTp al 2,46% (top dal 2020) e i Treasury Usa al 2,77% (2018). La Bce studia uno scudo anti spread”.

Riflettiamo sui dati, così diversi: gli operatori finanziari non credono che l’inflazione durerà a lungo, altrimenti non comprerebbero titoli decennali allo 0,82% oppure al 2,77 (decennali USA) o al 2,46% (decennali Italia). A inizio anno i titoli decennali tedeschi rendevano meno di zero, cioè -0,18%, per cui il creditore riceveva in restituzione meno del prestito concesso. In presenza di altri impeghi ancora più costosi, compreso il mantenimento della liquidità presso le banche, i tesorieri delle istituzioni che detengono fondi cospicui non avevano altra scelta.

Lo 0,82% fa sì che in uno schema semplificato a restituzione fissa finale, 100 euro diventino 108,5 dopo 10 anni. Con una inflazione all’1% il loro potere d’acquisto sarà 98,2; al 2%, 96,3; al 5%, 60,4. Se lo 0,82% è rassicurante, vuol dire che l’inflazione non è considerata duratura. L’analisi non è del tutto tranquillizzante, in quanto vale sempre il ragionamento del “meno peggio” nelle scelte di impiego dei tesorieri, ma i compratori dei titoli decennali non sono stati restii ad impegnarsi a questi tassi.

Ricordiamo che cosa provoca l’aumento dei prezzi in questi mesi. Come ho annotato a metà febbraio3 nella Porta di Vetro, assistiamo a una inflazione da costi, non da eccesso di domanda. Con buona pace di chi ha ricordi un po’ vaghi e confusi degli studi di economia, non stanno squillando le trombe del giudizio per “aver creato troppa moneta”, come ogni tanto sento affermare (e magari faccio finta di non sentire). La moneta, sia essa un foglio di carta colorata, caso meno importante, oppure una scrittura contabile, caso molto più rilevante, non ha gambe e se non induce atti di acquisto non ha nessun effetto.

Un esempio di effetto è quello dei bonus 90% o 110% per l’edilizia. Si sono finanziate spese per interventi che, tutti concentrati nel tempo, hanno fatto schizzare verso l’alto i prezzi del settore. Invece la spesa in disavanzo per i cosiddetti ristori o per la cassa integrazione e così via, cioè quella usata per fronteggiare la caduta dei redditi per la pandemia, non ha creato domanda aggiuntiva; ha solo evitato che la caduta fosse ancora più grande.

Come era facile attendersi, dopo il vuoto produttivo, il mondo si è rimesso in moto, riattivando la complicatissima rete internazionale delle forniture, la supply chain mondiale. Al suo interno, per scarsa lungimiranza, molti produttori strategici si sono trovati impreparati a rimettersi in moto, determinando una grave carenza di prodotti chiave: si pensi al caso dei microprocessori. Pur di ottenere quelle forniture, sono stati pagati prezzi esorbitanti, scaricati sul prodotto finale. Ecco l’inflazione da costi.
Alzare il tasso dell’interesse in un caso come questo non servirebbe. Anzi, determinerebbe un aggravio di costi. La manovra classica per fermare l’inflazione da domanda consiste nel rendere più costosi i finanziamenti, da quelli delle vendite a rate, all’acquisto di beni produttivi e alla detenzione di scorte a scopo speculativo. Come abbiamo visto, non è questa la situazione.
Per l’energia, la carenza dovuta alla ripresa è stata inasprita dalla terribile guerra ai confini dell’Europa, anche con un effetto panico che ha moltiplicato la tensione. La carenza di prodotti alimentari è direttamente dovuta al conflitto: si pensi al grano dell’Ucraina, il cui raccolto può essere gravemente compromesso.
In ogni caso, è una situazione circoscritta nel tempo. Mentre scrivo, 13 aprile, il sito web del Financial Times4 titola “A Fleck Of Good Inflation News”. Un pizzico di buone notizie sull’inflazione, che consistono nella svolta delle previsioni sull’andamento dei prezzi negli Stati Uniti, ora decisamente in discesa.
Krugman, il premio Nobel dell’economia, attentissimo commentatore sul New York Times, sempre il 13 aprile annota5 che il rapporto sull’inflazione di marzo è arrivato pesante come previsto: i prezzi al consumo sono aumentati dell’8,5% nell’ultimo anno; prosegue indicando che a più di due anni dalla pandemia, stiamo ancora vivendo ai ritmi della Covid-19 e le cose possono cambiare molto velocemente. Così velocemente che i dati ufficiali, anche sul recente passato, possono riportare un quadro fuorviante di ciò che sta accadendo ora. L’indice dei prezzi al consumo probabilmente non comprende una svolta al ribasso che è iniziata alla fine di marzo e sta accelerando.

Ci sono dunque le condizioni per indicare che la fiammata dei prezzi potrebbe essere di breve durata. Allora, ritornando a Guccini, stiamo attenti che l’inflazione non ci renda più cattivi prima di andarsene: lo siamo già abbastanza!

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