Quarant’anni fa moriva Giorgio Amendola
Il ricordo di un grande italiano
di Marco Travaglini |
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Quarant’anni fa, il 5 giugno del 1980, prossimo ai 73 anni, moriva a Roma Giorgio Amendola, prestigioso dirigente del PCI e della sinistra italiana. Con lui se ne andava anche la figura politica che più di altre, aliena da simpatie verso il correntismo e il frazionismo, si era battuta per portare il partito comunista italiano su un approdo realmente riformista, da cui guardare l’orizzonte di una moderna socialdemocrazia che avrebbe dovuto unire tutte le anime di sinistra del nostro Paese.
Pronipote di un mazziniano, nonno garibaldino, era figlio di Giovanni Amendola, ministro liberale morto in esilio per le conseguenze di una brutale aggressione da parte di una squadraccia fascista.
A ventidue anni – nel 1929 – aderì all’organizzazione clandestina comunista. Scrisse che nel partito comunista d’Italia aveva trovato “nei fatti la conferma della validità della affermazione di Piero Gobetti, essere il proletariato l’unica classe portatrice di avvenire”. Una scelta che ne accompagnerà l’intera esistenza, dagli anni della clandestinità e della lotta alla dittatura fascista, all’impegno nel dopoguerra e alle coraggiose battaglie politiche e ideali. Scelte condivise anche con Germaine, la compagna della sua vita che sposò nel luglio del ’34 quand’era al confino a Ponza. A lei aveva dedicato parole di grande passione nel suo libro “Una scelta di vita”, ricordandone l’incontro il 14 luglio, festa della repubblica francese di qualche anno prima, e poi il valzer ballato insieme, l’amore a prima vista.
Giorgio Amendola fu tra gli artefici della Resistenza, dove diresse proprio a Torino l’ora della Liberazione, momento epico di una nazione che intese come lotta di popolo, larga, unitaria, in grado di coinvolgere tutti a prescindere dagli orientamenti politici e ideali dei protagonisti, fossero comunisti o cattolici, socialisti, liberali o azionisti. Componente del Comando generale delle Brigate Garibaldi, svolse sino alla Liberazione l’attività di ispezione tra le formazioni partigiane delle diverse regioni ancora occupate immaginando come, una volta sconfitto il fascismo e il nazismo, fosse necessario ricostruire un paese capace di riscattarsi e di affrontare nuove sfide. Le frasi con le quali terminava i suoi discorsi (“Viva l’Italia” e “Al lavoro e alla lotta”) trasmettevano il senso dell’ impegno che in quella fase storica si erano assunti lui e il suo partito. Un’impresa nazionale, tanto gravosa quanto necessaria per intraprendere il cammino verso le riforme, il possibile cambiamento di un Paese che doveva lasciarsi alle spalle quella che Amendola definiva “la sua storica condizione di miseria e arretratezza”.
Come ricordò un altro grande dirigente del Pci, Giancarlo Pajetta, nel suo omaggio funebre all’amico e compagno, Amendola seppe “imparare e insegnare”. Protagonista della vita politica italiana del dopoguerra, seppe guadagnarsi il rispetto sia all’interno del suo partito sia dagli avversari. Nel pensiero, nell’azione e persino nel lessico politico di questo grande intellettuale vi era una costante, una tensione ideale che pareva sconfinare in vera e propria “ossessione” per i destini generali del Paese, per una visione del ruolo della sinistra e del suo partito in chiave nazionale, unitaria e riformista.
Tutti elementi di impressionante attualità che ne hanno contraddistinto, fino alla morte, il pensiero e l’ azione politica. Il suo fu uno dei più alti e originali contribuiti a quella che può definirsi una coerente cultura e politica riformista di cui ancora oggi si avverte la mancanza in parte della sinistra italiana. Più di mezzo secolo fa, nel 1964, dopo la morte di Togliatti, in un dibattito con Norberto Bobbio esplicitò una delle sue più dirompenti proposte: l’avvio di un processo di unificazione di tutta la sinistra italiana, superando la rottura e la tormentata divisione tra comunisti e socialisti per dare vita a una nuova grande formazione politica di tipo europeo.
Insomma, il tema dei temi per chi è o aspira ad essere di sinistra e per chi è pronto a gettarsi nella mischia contro “i conservatori” della sinistra. Valori e principi alti che l’accompagnarono nella sua vita soprattutto quando si trattò di posizioni controcorrente e impopolari che gli procurarono critiche dure, anche astiose, dall’interno del Pci. Come nel 1979, quando primo tra tutti i dirigenti comunisti, bollò senza esitazione, nella stagione del terrorismo, all’epoca dei 61 licenziamenti alla Fiat, la violenza nelle fabbriche, in le intimidazioni, le minacce esercitate in nome della classe operaia, l’assenteismo, la caduta di democrazia sindacale nei luoghi di lavoro.
Dunque un pensiero “lungo”, moderno così com’era innovativo l’impegno europeista che condusse con vigore e lucidità. Tra le opere che ci ha lasciato in eredità, accanto a Lettere a Milano (1973) e Intervista sull’antifascismo (1976) meritano di essere citati insieme al già ricordato “Una scelta di vita” (1978), l’altro volume autobiografico “Un’isola”, pubblicato nell’anno della sua morte. Una figura di questo valore oggi avrebbe molto da dire e saprebbe farsi ascoltare non solo per la vitale intelligenza, il grande rigore e il coraggio ma soprattutto per il fatto di essere stato un punto riferimento per chi ritiene che la lotta politica sia un confronto di idee e non uno scontro fazioso.
Posted on: 2020/06/04, by : admin
A ventidue anni – nel 1929 – aderì all’organizzazione clandestina comunista. Scrisse che nel partito comunista d’Italia aveva trovato “nei fatti la conferma della validità della affermazione di Piero Gobetti, essere il proletariato l’unica classe portatrice di avvenire”. Una scelta che ne accompagnerà l’intera esistenza, dagli anni della clandestinità e della lotta alla dittatura fascista, all’impegno nel dopoguerra e alle coraggiose battaglie politiche e ideali. Scelte condivise anche con Germaine, la compagna della sua vita che sposò nel luglio del ’34 quand’era al confino a Ponza. A lei aveva dedicato parole di grande passione nel suo libro “Una scelta di vita”, ricordandone l’incontro il 14 luglio, festa della repubblica francese di qualche anno prima, e poi il valzer ballato insieme, l’amore a prima vista.
Giorgio Amendola fu tra gli artefici della Resistenza, dove diresse proprio a Torino l’ora della Liberazione, momento epico di una nazione che intese come lotta di popolo, larga, unitaria, in grado di coinvolgere tutti a prescindere dagli orientamenti politici e ideali dei protagonisti, fossero comunisti o cattolici, socialisti, liberali o azionisti. Componente del Comando generale delle Brigate Garibaldi, svolse sino alla Liberazione l’attività di ispezione tra le formazioni partigiane delle diverse regioni ancora occupate immaginando come, una volta sconfitto il fascismo e il nazismo, fosse necessario ricostruire un paese capace di riscattarsi e di affrontare nuove sfide. Le frasi con le quali terminava i suoi discorsi (“Viva l’Italia” e “Al lavoro e alla lotta”) trasmettevano il senso dell’ impegno che in quella fase storica si erano assunti lui e il suo partito. Un’impresa nazionale, tanto gravosa quanto necessaria per intraprendere il cammino verso le riforme, il possibile cambiamento di un Paese che doveva lasciarsi alle spalle quella che Amendola definiva “la sua storica condizione di miseria e arretratezza”.
Come ricordò un altro grande dirigente del Pci, Giancarlo Pajetta, nel suo omaggio funebre all’amico e compagno, Amendola seppe “imparare e insegnare”. Protagonista della vita politica italiana del dopoguerra, seppe guadagnarsi il rispetto sia all’interno del suo partito sia dagli avversari. Nel pensiero, nell’azione e persino nel lessico politico di questo grande intellettuale vi era una costante, una tensione ideale che pareva sconfinare in vera e propria “ossessione” per i destini generali del Paese, per una visione del ruolo della sinistra e del suo partito in chiave nazionale, unitaria e riformista.
Tutti elementi di impressionante attualità che ne hanno contraddistinto, fino alla morte, il pensiero e l’ azione politica. Il suo fu uno dei più alti e originali contribuiti a quella che può definirsi una coerente cultura e politica riformista di cui ancora oggi si avverte la mancanza in parte della sinistra italiana. Più di mezzo secolo fa, nel 1964, dopo la morte di Togliatti, in un dibattito con Norberto Bobbio esplicitò una delle sue più dirompenti proposte: l’avvio di un processo di unificazione di tutta la sinistra italiana, superando la rottura e la tormentata divisione tra comunisti e socialisti per dare vita a una nuova grande formazione politica di tipo europeo.
Insomma, il tema dei temi per chi è o aspira ad essere di sinistra e per chi è pronto a gettarsi nella mischia contro “i conservatori” della sinistra. Valori e principi alti che l’accompagnarono nella sua vita soprattutto quando si trattò di posizioni controcorrente e impopolari che gli procurarono critiche dure, anche astiose, dall’interno del Pci. Come nel 1979, quando primo tra tutti i dirigenti comunisti, bollò senza esitazione, nella stagione del terrorismo, all’epoca dei 61 licenziamenti alla Fiat, la violenza nelle fabbriche, in le intimidazioni, le minacce esercitate in nome della classe operaia, l’assenteismo, la caduta di democrazia sindacale nei luoghi di lavoro.
Dunque un pensiero “lungo”, moderno così com’era innovativo l’impegno europeista che condusse con vigore e lucidità. Tra le opere che ci ha lasciato in eredità, accanto a Lettere a Milano (1973) e Intervista sull’antifascismo (1976) meritano di essere citati insieme al già ricordato “Una scelta di vita” (1978), l’altro volume autobiografico “Un’isola”, pubblicato nell’anno della sua morte. Una figura di questo valore oggi avrebbe molto da dire e saprebbe farsi ascoltare non solo per la vitale intelligenza, il grande rigore e il coraggio ma soprattutto per il fatto di essere stato un punto riferimento per chi ritiene che la lotta politica sia un confronto di idee e non uno scontro fazioso.
Posted on: 2020/06/04, by : admin