Ratzinger, solo un’invasione di campo?
di Davide Rigallo |
| L’“incidente” del contributo in difesa del celibato sacerdotale scritto da Ratzinger per il volume del cardinale Sarah, notoriamente avverso alle aperture di Papa Bergoglio, non costituisce una semplice infrazione alla promessa del silenzio fatta a suo tempo dal Papa emerito a Francesco, né una querelle strettamente teologica. Non si tratta neppure di un conflitto tra papi, come qualcuno, sui media, ha cercato di banalizzare. La partita è di ben altro livello e riguarda, ancora una volta, l’elemento fondamentale della recente storia della Chiesa Romana: l’attuazione del Concilio Vaticano II.
Nella Chiesa, a rigore, non esistono “progressisti” e “conservatori”, e nemmeno una destra e una sinistra secondo il gergo politico comune. Esiste il Concilio Vaticano II con le sue riforme (liturgiche, dottrinali, pastorali, canoniche). In quasi sessant’anni, attraverso il magistero di sei pontefici – Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo I, Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco -, l’attuazione del Concilio si è rivelata lo scoglio più arduo per la Chiesa cattolica, il pilastro attorno al quale si è giocata – e continua a giocarsi – la sua unità. La successione papale che abbiamo tracciato non è sinonimo di continuità: l’attuazione del Concilio ha assunto forme differenti, talvolta segnate da arresti improvvisi o da lacerazioni che ne hanno frenato il corso.
Per molti aspetti, infatti, i pontificati di papa Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI sono sembrati una lunga notte in cui andava affievolendosi la luminosità ecumenica dei magisteri di Giovanni XXIII e Paolo VI. Con l’elezione di Francesco, viceversa, l’insegnamento conciliare originario è da subito riapparso nella forma, spesso traumatica, del “salto”, della “rottura”, della “nemesi” finalmente arrivata da dove, forse, non la si sarebbe aspettata. Da quel lato della Chiesa cattolica, cioè, che, sotto i pontificati di Woytiła e Ratzinger, aveva patito maggiormente il rigore dottrinale, l’emarginazione politica e spirituale, l’alleanza vaticana con i poteri dei governi anche quando questi assumevano il volto della dittatura militare. Parlo della Chiesa di Paulo Evaristo Arns, di Leonardo Boff, di Òscar Romero, dei “teologi della liberazione”, ma non solo. Parlo di quella Chiesa latinoamericana la cui missione evangelica si è rivelata, storicamente, una delle interpretazioni più congruenti e fedeli alle aperture nate nel Vaticano II e sulla quale si sono abbattute, per tre decenni, accuse di marxismo, di ribellione a Roma o di varia eversione pauperistica e antigerarchica.
È bene precisare che i pontificati di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI non hanno negato lo spirito del Concilio: piuttosto, essi ne hanno segnato l’attuazione in un solco fortemente identitario, in cui la tradizione resta il perno di ogni riforma dottrinale e di ogni azione pastorale, mentre la modernità è ammessa (ma sarebbe meglio dire: utilizzata) solo nelle sue forme più superficiali e meno sostanziali. In questo modo, l’internazionalizzazione del Sacro Collegio, la moltiplicazione dei viaggi pastorali, l’abbandono della tiara, le tante scuse per gli errori del passato, i momenti interreligiosi con altre confessioni sono coesistiti con elementi fortemente tradizionalisti come la mistica delle apparizioni mariane, la riaffermazione del diavolo come entità, la condanna inappellabile di marxismo e ateismo, l’eco del principio agostiniano di “guerra giusta”, sentimenti quasi “millenaristici”, ecc… Dietro a questa apparente contraddizione di elementi, per oltre tre decenni si è celato il disegno di avvitare il messaggio conciliare su se stesso, di farne qualcosa di inerte, di impedirne uno sviluppo che toccasse la struttura stessa della costruzione ecclesiastica. In maniera calcolata, linguaggio e riferimenti “moderni” (pensiamo ai numerosi richiami di Giovanni Paolo II alle Carte internazionali dei diritti) sono stati utilizzati per un obiettivo specifico che nulla ha a che vedere con la modernità: invertire la rotta di un mondo sempre più secolarizzato e orizzontale nei rapporti umani, centrato più sulla libertà individuale del pensiero e dell’azione che sulla devozione a Dio (e alla Chiesa).
Che tale tentativo sia fallito, lo hanno certificato le dimissioni di Benedetto XVI. La ripresa (non solo la difesa) della tradizione ha dimostrato di non potere più essere la strada attraverso cui la Chiesa riesce a fare conoscere Cristo. Ne va della sua universalità, della suo contenuto di salvezza, della sua incidenza morale e sociale. Il tempo storico scorre in modo non parallelo a quello della Chiesa: l’adeguamento, per essere efficace, deve essere di sostanza, non solo verbale e liturgico. La via da percorrere è quindi un’altra – ed è stato miope averla accantonata. È quella intuita da Giovanni XXIII e sviluppata da molti padri conciliari. È quella della collegialità orizzontale dei vescovi e delle comunità di base, delle favelas sudamericane come delle periferie urbane di un “nord” macchiato da troppi squilibri. È quella che non espelle per eterodossia, ma ingloba, anzi si nutre di coloro che dissentono, nella pratica e nel pensiero, dalle indicazioni impartite dal centro. È la strada, infine, che non si preoccupa di costruire una identità attraverso cui rivendicare dottrina e morale, condannando quelli che non vi sono dentro o dimenticando chi abita alle sue estremità.
Questa strada ha trovato in Francesco un punto da cui ripartire, anzi da cui recuperare, costringendo la Chiesa a misurarsi direttamente non solo con le urgenze del nostro tempo – ambiente, migrazioni, povertà, ma anche ruolo della donna, rapporto con i laici, lotta alle diseguaglianze sociale, moralizzazione del clero, ecc.. – e le sue responsabilità storiche, ma anche con le sue complicità contemporanee. E proprio su queste si concentra la partita più difficile, i rischi maggiori per questo pontificato e per l’attuazione dell’eredità conciliare. Ogni attacco, ogni “incidente” che si consuma contro Francesco è un’azione contro questo complesso processo che, a detta di alcuni, minerebbe l’unità della Chiesa. A costoro verrebbe da obiettare: l’unità della Chiesa vale più dell’autenticità cristiana della sua azione? E ancora: si tratta dell’unità della Chiesa o dell’unità del clero? Perché, a ben vedere, se il vero motivo di preoccupazione è l’unità del clero e, attraverso questo, della Chiesa, il vulnus più forte in questo momento storico è dato da quell’anomalia che, dal 2013, vede un papa “emerito” coesistere con un papa regnante, incrinando un poco quel principio dell’assoluta unicità del Romano Pontefice che, dal Concilio di Costanza (1417) in poi, è garanzia del potere secolare e spirituale della Chiesa. Un vulnus che rischia di diventare esiziale quando viene utilizzato, o manipolato, da coloro che avversano, palesemente o sotterraneamente, il corso di riforme volute da Francesco per realizzare lo spirito del Vaticano II.
Posted on: 2020/01/17, by : admin
Nella Chiesa, a rigore, non esistono “progressisti” e “conservatori”, e nemmeno una destra e una sinistra secondo il gergo politico comune. Esiste il Concilio Vaticano II con le sue riforme (liturgiche, dottrinali, pastorali, canoniche). In quasi sessant’anni, attraverso il magistero di sei pontefici – Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo I, Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco -, l’attuazione del Concilio si è rivelata lo scoglio più arduo per la Chiesa cattolica, il pilastro attorno al quale si è giocata – e continua a giocarsi – la sua unità. La successione papale che abbiamo tracciato non è sinonimo di continuità: l’attuazione del Concilio ha assunto forme differenti, talvolta segnate da arresti improvvisi o da lacerazioni che ne hanno frenato il corso.
Per molti aspetti, infatti, i pontificati di papa Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI sono sembrati una lunga notte in cui andava affievolendosi la luminosità ecumenica dei magisteri di Giovanni XXIII e Paolo VI. Con l’elezione di Francesco, viceversa, l’insegnamento conciliare originario è da subito riapparso nella forma, spesso traumatica, del “salto”, della “rottura”, della “nemesi” finalmente arrivata da dove, forse, non la si sarebbe aspettata. Da quel lato della Chiesa cattolica, cioè, che, sotto i pontificati di Woytiła e Ratzinger, aveva patito maggiormente il rigore dottrinale, l’emarginazione politica e spirituale, l’alleanza vaticana con i poteri dei governi anche quando questi assumevano il volto della dittatura militare. Parlo della Chiesa di Paulo Evaristo Arns, di Leonardo Boff, di Òscar Romero, dei “teologi della liberazione”, ma non solo. Parlo di quella Chiesa latinoamericana la cui missione evangelica si è rivelata, storicamente, una delle interpretazioni più congruenti e fedeli alle aperture nate nel Vaticano II e sulla quale si sono abbattute, per tre decenni, accuse di marxismo, di ribellione a Roma o di varia eversione pauperistica e antigerarchica.
È bene precisare che i pontificati di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI non hanno negato lo spirito del Concilio: piuttosto, essi ne hanno segnato l’attuazione in un solco fortemente identitario, in cui la tradizione resta il perno di ogni riforma dottrinale e di ogni azione pastorale, mentre la modernità è ammessa (ma sarebbe meglio dire: utilizzata) solo nelle sue forme più superficiali e meno sostanziali. In questo modo, l’internazionalizzazione del Sacro Collegio, la moltiplicazione dei viaggi pastorali, l’abbandono della tiara, le tante scuse per gli errori del passato, i momenti interreligiosi con altre confessioni sono coesistiti con elementi fortemente tradizionalisti come la mistica delle apparizioni mariane, la riaffermazione del diavolo come entità, la condanna inappellabile di marxismo e ateismo, l’eco del principio agostiniano di “guerra giusta”, sentimenti quasi “millenaristici”, ecc… Dietro a questa apparente contraddizione di elementi, per oltre tre decenni si è celato il disegno di avvitare il messaggio conciliare su se stesso, di farne qualcosa di inerte, di impedirne uno sviluppo che toccasse la struttura stessa della costruzione ecclesiastica. In maniera calcolata, linguaggio e riferimenti “moderni” (pensiamo ai numerosi richiami di Giovanni Paolo II alle Carte internazionali dei diritti) sono stati utilizzati per un obiettivo specifico che nulla ha a che vedere con la modernità: invertire la rotta di un mondo sempre più secolarizzato e orizzontale nei rapporti umani, centrato più sulla libertà individuale del pensiero e dell’azione che sulla devozione a Dio (e alla Chiesa).
Che tale tentativo sia fallito, lo hanno certificato le dimissioni di Benedetto XVI. La ripresa (non solo la difesa) della tradizione ha dimostrato di non potere più essere la strada attraverso cui la Chiesa riesce a fare conoscere Cristo. Ne va della sua universalità, della suo contenuto di salvezza, della sua incidenza morale e sociale. Il tempo storico scorre in modo non parallelo a quello della Chiesa: l’adeguamento, per essere efficace, deve essere di sostanza, non solo verbale e liturgico. La via da percorrere è quindi un’altra – ed è stato miope averla accantonata. È quella intuita da Giovanni XXIII e sviluppata da molti padri conciliari. È quella della collegialità orizzontale dei vescovi e delle comunità di base, delle favelas sudamericane come delle periferie urbane di un “nord” macchiato da troppi squilibri. È quella che non espelle per eterodossia, ma ingloba, anzi si nutre di coloro che dissentono, nella pratica e nel pensiero, dalle indicazioni impartite dal centro. È la strada, infine, che non si preoccupa di costruire una identità attraverso cui rivendicare dottrina e morale, condannando quelli che non vi sono dentro o dimenticando chi abita alle sue estremità.
Questa strada ha trovato in Francesco un punto da cui ripartire, anzi da cui recuperare, costringendo la Chiesa a misurarsi direttamente non solo con le urgenze del nostro tempo – ambiente, migrazioni, povertà, ma anche ruolo della donna, rapporto con i laici, lotta alle diseguaglianze sociale, moralizzazione del clero, ecc.. – e le sue responsabilità storiche, ma anche con le sue complicità contemporanee. E proprio su queste si concentra la partita più difficile, i rischi maggiori per questo pontificato e per l’attuazione dell’eredità conciliare. Ogni attacco, ogni “incidente” che si consuma contro Francesco è un’azione contro questo complesso processo che, a detta di alcuni, minerebbe l’unità della Chiesa. A costoro verrebbe da obiettare: l’unità della Chiesa vale più dell’autenticità cristiana della sua azione? E ancora: si tratta dell’unità della Chiesa o dell’unità del clero? Perché, a ben vedere, se il vero motivo di preoccupazione è l’unità del clero e, attraverso questo, della Chiesa, il vulnus più forte in questo momento storico è dato da quell’anomalia che, dal 2013, vede un papa “emerito” coesistere con un papa regnante, incrinando un poco quel principio dell’assoluta unicità del Romano Pontefice che, dal Concilio di Costanza (1417) in poi, è garanzia del potere secolare e spirituale della Chiesa. Un vulnus che rischia di diventare esiziale quando viene utilizzato, o manipolato, da coloro che avversano, palesemente o sotterraneamente, il corso di riforme volute da Francesco per realizzare lo spirito del Vaticano II.
Posted on: 2020/01/17, by : admin