Recovery Fund: una spinta per riformare il Paese
di Mercedes Bresso|
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Alla fine, dopo quasi cinque giorni di negoziati confusi che non hanno fatto bene all’immagine dell’Europa, la trattativa sul Recovery Fund ha prodotto invece una serie di risultati molto apprezzabili. Il successo dei paesi pro-europei è di ampia portata e non solo perché è stato approvato un piano dalle dimensioni imponenti, sul modello di quel Piano Marshall che ridisegnò l’economia europea dopo le devastazioni della Seconda guerra mondiale. Lo è anche perché si è aperta la strada a molte innovazioni istituzionali.
Anzitutto è stato quasi raddoppiato il bilancio dell’Unione Europea per il settennato 2021-2027; grazie infatti all’autorizzazione alla Commissione ad indebitarsi sul mercato per approvvigionarsi dei 750 miliardi del Fondo straordinario, per la prima volta saranno emessi dei titoli dell’Unione Europea, a tripla A e dunque probabilmente a tasso negativo. Questa è senza dubbio la decisione più importante, perché finora la Commissione non aveva potere di indebitarsi, prerogativa essenziale di un potere federale.
Così, grazie alla crisi, appariranno sui mercati titoli molto appetibili, emessi non da un singolo Stato europeo, ma bensì dall’Unione Europea nella sua interezza. Per ora si tratta di una emissione una tantum ma apre la porta a un grande passo avanti nella competizione euro-dollaro. Infatti la debolezza della nostra moneta unica, per competere come valuta di riserva a livello mondiale, era proprio il fatto che i titoli in euro non erano europei ma dei singoli Stati. La grande appetibilità di questi euro-titoli potrebbe aprire la strada ad altre emissioni, magari per conto degli Stati ma con doppia garanzia. Non un debito unico per il quale l’avversione è troppo grande, ma dei titoli europei che potrebbero ad esempio avere la garanzia solo entro i parametri di Maastricht.
La seconda cosa molto positiva è che sarà la Commissione a orientare prima sui grandi obiettivi, il Piano a livello di tutta l’Europa e in seguito ad approvare quelli degli Stati. Questi fondi serviranno dunque per finanziare il Recovery plan, per 360 miliardi in prestiti (e quindi gli Stati rimborseranno la Commissione, che a sua volta con questi soldi ripagherà il proprio debito). Gli altri 390 miliardi saranno assegnati agli Stati in grants, cioè a fondo perduto. Sarà quindi la Commissione a dover rimborsare i titoli. Come? Da quanto si capisce attraverso risorse proprie fiscali che le sarebbero attribuite, una carbon e una plastic tax , tutte ancora da definire ma anch’esse molto interessanti, perché legate alla pre-condizione che dovrà orientare l’uso di tutti i fondi, cioè l’orientamento verso la green economy. Sarebbero le prime risorse proprie dopo molto tempo (le altre sono i diritti doganali, una piccola parte dell’Imposta sul valore aggiunto e poco altro). Quindi per la prima volta l’Ue si approvvigiona sul mercato dei capitali unitariamente, creando un precedente di grande importanza che sarà da seguire attentamente.
Per l’Italia si può certamente parlare di un eccellente risultato perché le risorse a cui potrà accedere sono importanti e il fatto di dover presentare un piano e rispettarlo è non solo il minimo che si possa chiedere ma è anche del tutto coerente con le normali modalità di assegnazione dei fondi europei. Dovrà presentare un piano di rilancio che rispetti la pre-condizione di essere orientato alla sostenibilità ambientale e, da quanto si capisce, alla digitalizzazione dell’economia, oltre che alle necessarie ristrutturazioni che la crisi del Covid-19 ha accelerato ma delle quali la nostra economia aveva bisogno da prima: maggiore ricerca e innovazione, maggiori investimenti sul capitale umano, attenzione alla completezza delle filiere produttive, maggiore importanza alla salute e all’economia sociale.
Questo a mio avviso dovrebbe significare un piano i cui assi principali di intervento contengano la maggior parte di queste caratteristiche: ad esempio investimenti sull’innovazione ambientale, formazione delle diverse figure professionali necessarie, potenziamento della ricerca in quel campo, forte uso delle tecnologie digitali negli interventi e nei prodotti.
Dopo ogni crisi, come Schumpeter ci ricorda, serve una distruzione creatrice: in questo caso la distruzione dovrebbe riguardare i prodotti e i servizi obsoleti perché ambientalmente nocivi e poco digitalizzati, a favore della creazione di prodotti e servizi con un forte contenuto innovativo green e digitale e che creino posti di lavoro di migliore qualità. Poiché l’Italia è caratterizzata da imprese troppo piccole, sottocapitalizzate e a bassa intensità di ricerca e trasferimento tecnologico, ma anche da imprenditori con grande capacità di flessibilità nell’adattare al cliente i propri prodotti, si potrebbe puntare sui distretti e sui cluster per provare a portare il nostro paese su un percorso innovativo virtuoso.
Non dobbiamo però nasconderci il fatto che l’Italia sarà un osservato speciale, perché è il Paese che ha subito la crisi e la recessione più severe ma anche perché è considerata il paese più renitente a fare le riforme che annuncia spesso e realizza di rado. Credo vada chiarita una cosa: le riforme non devono necessariamente essere di destra. L’esempio del Portogallo è lì a ricordarcelo. Ma le riforme devono però affrontare i problemi più rilevanti del nostro paese. I già ricordati: la scarsa crescita della produttività, la troppo piccola dimensione delle imprese, gli investimenti in istruzione, ricerca e sviluppo insufficienti, il mercato del lavoro bloccato ma anche l’inefficienza della pubblica amministrazione, il peso della criminalità mafiosa e i tempi infiniti della giustizia, in particolare di quella civile.
Si potrebbe continuare ma gli elenchi li troviamo fin troppo spesso su tutti i giornali. E chi dice che queste riforme non sarebbero di sinistra? O comunque progressiste e utili al Paese? Nessuno ci chiederà di farle tutte e subito, ma solo di dimostrare che, anche grazie a questo straordinario aiuto dell’Europa, iniziamo ad affrontarle con serietà.
Posted on: 2020/07/22, by : admin
Anzitutto è stato quasi raddoppiato il bilancio dell’Unione Europea per il settennato 2021-2027; grazie infatti all’autorizzazione alla Commissione ad indebitarsi sul mercato per approvvigionarsi dei 750 miliardi del Fondo straordinario, per la prima volta saranno emessi dei titoli dell’Unione Europea, a tripla A e dunque probabilmente a tasso negativo. Questa è senza dubbio la decisione più importante, perché finora la Commissione non aveva potere di indebitarsi, prerogativa essenziale di un potere federale.
Così, grazie alla crisi, appariranno sui mercati titoli molto appetibili, emessi non da un singolo Stato europeo, ma bensì dall’Unione Europea nella sua interezza. Per ora si tratta di una emissione una tantum ma apre la porta a un grande passo avanti nella competizione euro-dollaro. Infatti la debolezza della nostra moneta unica, per competere come valuta di riserva a livello mondiale, era proprio il fatto che i titoli in euro non erano europei ma dei singoli Stati. La grande appetibilità di questi euro-titoli potrebbe aprire la strada ad altre emissioni, magari per conto degli Stati ma con doppia garanzia. Non un debito unico per il quale l’avversione è troppo grande, ma dei titoli europei che potrebbero ad esempio avere la garanzia solo entro i parametri di Maastricht.
La seconda cosa molto positiva è che sarà la Commissione a orientare prima sui grandi obiettivi, il Piano a livello di tutta l’Europa e in seguito ad approvare quelli degli Stati. Questi fondi serviranno dunque per finanziare il Recovery plan, per 360 miliardi in prestiti (e quindi gli Stati rimborseranno la Commissione, che a sua volta con questi soldi ripagherà il proprio debito). Gli altri 390 miliardi saranno assegnati agli Stati in grants, cioè a fondo perduto. Sarà quindi la Commissione a dover rimborsare i titoli. Come? Da quanto si capisce attraverso risorse proprie fiscali che le sarebbero attribuite, una carbon e una plastic tax , tutte ancora da definire ma anch’esse molto interessanti, perché legate alla pre-condizione che dovrà orientare l’uso di tutti i fondi, cioè l’orientamento verso la green economy. Sarebbero le prime risorse proprie dopo molto tempo (le altre sono i diritti doganali, una piccola parte dell’Imposta sul valore aggiunto e poco altro). Quindi per la prima volta l’Ue si approvvigiona sul mercato dei capitali unitariamente, creando un precedente di grande importanza che sarà da seguire attentamente.
Per l’Italia si può certamente parlare di un eccellente risultato perché le risorse a cui potrà accedere sono importanti e il fatto di dover presentare un piano e rispettarlo è non solo il minimo che si possa chiedere ma è anche del tutto coerente con le normali modalità di assegnazione dei fondi europei. Dovrà presentare un piano di rilancio che rispetti la pre-condizione di essere orientato alla sostenibilità ambientale e, da quanto si capisce, alla digitalizzazione dell’economia, oltre che alle necessarie ristrutturazioni che la crisi del Covid-19 ha accelerato ma delle quali la nostra economia aveva bisogno da prima: maggiore ricerca e innovazione, maggiori investimenti sul capitale umano, attenzione alla completezza delle filiere produttive, maggiore importanza alla salute e all’economia sociale.
Questo a mio avviso dovrebbe significare un piano i cui assi principali di intervento contengano la maggior parte di queste caratteristiche: ad esempio investimenti sull’innovazione ambientale, formazione delle diverse figure professionali necessarie, potenziamento della ricerca in quel campo, forte uso delle tecnologie digitali negli interventi e nei prodotti.
Dopo ogni crisi, come Schumpeter ci ricorda, serve una distruzione creatrice: in questo caso la distruzione dovrebbe riguardare i prodotti e i servizi obsoleti perché ambientalmente nocivi e poco digitalizzati, a favore della creazione di prodotti e servizi con un forte contenuto innovativo green e digitale e che creino posti di lavoro di migliore qualità. Poiché l’Italia è caratterizzata da imprese troppo piccole, sottocapitalizzate e a bassa intensità di ricerca e trasferimento tecnologico, ma anche da imprenditori con grande capacità di flessibilità nell’adattare al cliente i propri prodotti, si potrebbe puntare sui distretti e sui cluster per provare a portare il nostro paese su un percorso innovativo virtuoso.
Non dobbiamo però nasconderci il fatto che l’Italia sarà un osservato speciale, perché è il Paese che ha subito la crisi e la recessione più severe ma anche perché è considerata il paese più renitente a fare le riforme che annuncia spesso e realizza di rado. Credo vada chiarita una cosa: le riforme non devono necessariamente essere di destra. L’esempio del Portogallo è lì a ricordarcelo. Ma le riforme devono però affrontare i problemi più rilevanti del nostro paese. I già ricordati: la scarsa crescita della produttività, la troppo piccola dimensione delle imprese, gli investimenti in istruzione, ricerca e sviluppo insufficienti, il mercato del lavoro bloccato ma anche l’inefficienza della pubblica amministrazione, il peso della criminalità mafiosa e i tempi infiniti della giustizia, in particolare di quella civile.
Si potrebbe continuare ma gli elenchi li troviamo fin troppo spesso su tutti i giornali. E chi dice che queste riforme non sarebbero di sinistra? O comunque progressiste e utili al Paese? Nessuno ci chiederà di farle tutte e subito, ma solo di dimostrare che, anche grazie a questo straordinario aiuto dell’Europa, iniziamo ad affrontarle con serietà.
Posted on: 2020/07/22, by : admin