Riforma Cartabia: punto di partenza per ritornare a credere nella Giustizia

di Maria Grazia Cavallo*|

|

La riforma Cartabia? Non è altro che un punto di partenza. Ma l’affermazione non deve suonare come un disvalore, anzi. E non lo è per una ragione semplice: viviamo in Italia, un paese in cui i problemi della Giustizia costituiscono un fenomeno drammaticamente emergenziale. Un fenomeno che si è ingigantito in maniera esponenziale negli ultimi decenni, nonostante l’impegno di più Guardasigilli che si sono alternati nei vari governi, alcuni di quali di elevato profilo intellettuale e spessore professionale. Eppure, tutto ciò non è stato sufficiente se ci si ritrova a guardare alla riforma Cartabia come una sorta di ultima spiaggia, l’ultimo treno da prendere, possibilmente non in corsa, proprio per evitare scivoloni (da qui il punto di partenza) che l’Unione Europa – in gioco, ci sono i noti finanziamenti per la ripresa post pandemia – non ci perdonerebbe. E passando dal generale al particolare, la UE non ci potrebbe perdonare la “conservazione” dell’attuale Giustizia Civile che quotidianamente viene vissuta come un sistema complicato di procedure e di meccanismi farraginosi che si dilatano nel tempo col risultato di scoraggiare sia gli investimenti dall’estero, sia di “impigliare” le dinamiche di crescita dell’imprenditoria interna.

L’urgenza di voltare pagina in nome del Recovery Plan

La storia del rapporto tra giustizia e imprese è arcinota. La rapidità di soluzione delle controversie, la tempestività dei pagamenti e l’affidamento circa la riscossione dei crediti sono elementi imprescindibili da considerare per la fondazione, la gestione e lo sviluppo delle imprese. Le quali, altrimenti, scelgono – come avviene da troppo tempo – di impiantarsi altrove o, peggio, di emigrare dall’Italia all’estero. Affinché l’Italia possa ricevere i fondi europei del Recovery Plan, occorre intervenire con urgenza sulle molteplici procedure: sburocratizzando, semplificando , agevolando percorsi rapidi, e – per così dire – “disboscando” i meccanismi giudiziari da formalismi ridondanti o pleonastici. L’obiettivo è quello di ridurre rapidamente la durata dei processi civili del 40 per cento, così da allinearci alle tempistiche virtuose della maggior parte dei Paesi Europei. Obbiettivo ambizioso, ma irrinunciabile perché l’incertezza e la lunghezza di tali procedure, mentre continuano ad esasperare e a costare molto ai cittadini, danneggiano significativamente l’economia italiana, provocando costanti emorragie di risorse, di competenze, di posti di lavoro.

Umanità e passioni del Penale

La questione del processo penale è, invece, più complicata e accidentata, a prescindere dalla riduzione dei tempi che l’Europa (benevola) stima attorno al 25 per cento. Ma qui si paga un’altra storia, deformata nella sua scrittura e riscrittura da opportunismi politici (talvolta tecnicamente incomprensibili) che hanno trasformato la giustizia penale in un “sanguinoso” terreno di scontro, in un luogo pretesto di strumentalizzazioni e di manicheismi ideologici così radicalizzati da generare la sensazione di essere “schieramenti di bandiera”, che analisi di problemi fondate sulla conoscenza dei dati di realtà. Ora, sappiamo bene che per l’umanità di cui è intriso il Penale non si possa sottrarre alle passioni e quanto sia divisivo. Fattori che sono amplificati dalla spettacolarizzazione mediatica delle inchieste – parallelamente alla sempre più allarmante perdita di centralità del giudizio (che tecnicamente è il topos , il “cuore” del processo) – che trasforma la materia processuale-penalistica in palcoscenico di copioni drammaturgici, lievito per il populismo penale, campo di battaglia fra poteri ed interessi più o meno forti.

Per queste ragioni – che sono evidenti a tutti, particolarmente in questi giorni – il percorso riformatore del sistema penale potrebbe incontrare altri ostacoli e subire rallentamenti ulteriori. Oppure – pur di pervenire tempestivamente all’approdo – rischiare di snaturarsi del tutto, così da rivelarsi sostanzialmente disfunzionale. Ma è tempo di procedere. La riforma è improcrastinabile e arriva, se non altro, sotto la buona stella del prestigio internazionale di cui gode il presidente del Consiglio, Mario Draghi, unitamente alla specifica competenza in materia della ministra della Giustizia. Il che ci consente di pronosticare che il progetto passi sotto lo striscione del traguardo entro il 2021.

Il mastodontico arretrato nei Tribunali penali

Ma quali sono le sue caratteristiche più essenziali? Intanto – nonostante le modalità attraverso cui è stato “costruito”, mostra di essere più un approdo “provvisorio” che integralmente condiviso. Il che non è del tutto uno svantaggio, se accogliamo come dato positivo il paziente lavoro di mediazione in corso alla ricerca di un punto di equilibrio fra le diverse istanze ideologiche dei partiti e gli specifici quesiti tecnici posti dai professionisti della Giustizia Penale. I quali – magistrati, avvocati, funzionari – pur nella diversità delle funzioni e dei ruoli hanno tutti a cuore il buon funzionamento del sistema nel rispetto della Costituzione ed esprimono la fondata preoccupazione di non poter fornire comunque una giustizia rapida, garantista e dunque “giusta” ai cittadini.

Da anni il sistema della Giustizia penale è sull’orlo del collasso. La quantità esorbitante di arretrato, la scarsità di risorse, l’eccessiva durata dei processi e talvolta la mancanza di risposte costituiscono, paradosso della conseguenza, esse stesse una pena. In particolare per le vittime del reato, che attendono – sempre troppo a lungo – il chiarimento dei fatti e la pronuncia di giustizia. Con i tempi dilatati ad oltranza, si dilata anche il logorìo psicologico dell’indagato, poi imputato in attesa di giudizio, anche se il soggetto è libero. In qualunque caso, l’attuale procedimento penale produce implicazioni molteplici ed effetti collaterali devastanti quando ci si ritrova nel tritacarne di una giustizia che cammina alla velocità di una lumaca.

Il casus belli della prescrizione

Come abbiamo già detto, per i requisiti di emergenza e rapida funzionalità la Riforma Cartabia non può essere né definitiva, né radicale. Però… è un promettente inizio che ci allontana dallo status quo. Anche sul delicato e bollente tema della prescrizione, checché ne dica il giustizialismo di casa nostra che auspicherebbe il “fine processo mai”. Al fine di evitare astiosi equivoci, mi limito a ricordare che la prescrizione è una garanzia per il cittadino in attesa di giudizio o di sentenza, uno strumento funzionale a velocizzare la trattazione dei procedimenti, precisamente una sanzione che colpisce l’eccessiva durata di un procedimento. Tanto eccessiva, da superare i termini – già significativamente lunghi, molto lontani dai fatti – stabiliti per i vari reati.

In altri termini, possiamo definirla come la “scure” che si abbatte – e che si deve abbattere – sui processi, quando lo Stato si è dimostrato incapace di portarli a conclusione dopo tanti, troppi anni di attesa. Salvo che sia lo stesso imputato a rinunciare alla prescrizione e che siano sempre salvaguardati i diritti ai risarcimenti delle vittime in sede civile. Eppure la prescrizione, nell’immaginario collettivo, è diventata un “totem” o “tabù“, secondo l’angolo di osservazione, da aver scatenato una selva di contrasti e irrigidimenti, anziché favorire un rapporto di costruttiva discussione.

Il punto di mediazione raggiunto sulla prescrizione, nella riforma Cartabia, è fin troppo ottimistico. Stabilisce termini troppo esigui per la celebrazione dei processi; e al contempo, prevede la penalizzazione dell’improcedibilità: una “scure” altrettanto pesante oltre alla dispersione di lavoro e di risorse spese. In effetti, il punto di mediazione cui si è arrivati desta molte perplessità fra tutti coloro che si occupano quotidianamente di giustizia penale e ne hanno concreta esperienza, perché i tempi di definizione descritti dal testo della riforma rischiano di scontrarsi coi dati di realtà. E lo si teme, a dispetto di chi sguaina sempre la spada del giustizialismo, proprio per la celebrazione dei processi in quei distretti giudiziari particolarmente colpiti dall’offensiva della criminalità organizzata, ma afflitti dalla penuria di risorse e da drammatici problemi di arretrato.

Del resto, l’auspicio non è soltanto quello di processi in tempi brevi, quanto che essi siano equi nel rapporto tra difesa e pubblico ministero e soprattutto “giusti” nel tentativo doveroso di contemperare velocità e ricerca degli elementi probatori, laddove ogni vicenda ha la propria storia ed è caratterizzata di una specifica complessità. Dunque, per dare uno sviluppo logico alla riforma sarebbe urgente partire dalle fondamenta, cioè dallo smaltimento dell’arretrato con il conseguente aumento e rafforzamento degli organici. Un’astrazione? Sarebbe sufficiente che i magistrati impiegati presso tutti i Ministeri – e non soltanto presso quello di Grazia e Giustizia – tornassero ad esercitare la professione per cui hanno superato il concorso. Si tratterebbe di una felice ottimizzazione delle competenze, peraltro di semplice attuazione. Senza contare il fatto che – anche soltanto a livello simbolico (ma anche il simbolismo ha valore, e non soltanto nell’emergenza) – è sempre bene tener presente e nettissima una linea di demarcazione fra potere giudiziario e potere esecutivo, a tutti i livelli ed in tutti gli ambiti.

Inoltre, non sarebbe fuori luogo assicurare una energica ristrutturazione del codice di Procedura Penale per dare una “scossa” alla celebrazione dei riti processuali e dare maggiore spazio all’intervento ed ai contributi delle difese – quella dell’imputato e quella delle vittime – anche nell’ambito di applicazione dei riti alternativi esistenti. Ma di ciò parleremo in un successivo intervento.



*Avvocato penalista


Posted on: 2021/07/25, by :