Riforma pensionistica, ci siamo… forse

di Emanuele Davide Ruffino|

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Tra un penultimatum e l’altro, il Governo e le parti sociali cominciano a parlare di soluzioni concrete, né potevano fare diversamente, visto l’accelerazione di alcune situazioni non più rinviabili. Anche sul fronte pensioni si comincia a confrontarsi su dati oggettivi e non solo più di ipotesi acchiappavoti. E l’Inps, con tardiva puntualità… – l’ossimoro è doveroso – ha precisato quali possono essere i costi delle ipotesi fattibili. Nulla di eclatante. Anzi, cifre modeste se paragonate alle spese che lo Stato dovrà sostenere per il “bonus 110%, che a regime supererà i 112 miliardi (gran parte del PNRR), o per altre manovre demagogiche.

Uno scenario in rapida evoluzione

Per evitare l’ennesima proroga o altri provvedimenti estemporanei che non contribuiscono a conferire credibilità al sistema, e pongono l’Italia tra i più inaffidabili in ambito OCSE, occorre individuare soluzioni sostenibili, che non gravino troppo sulle casse dello Stato (già messe in crisi dagli effetti, non prevenuti con tempestività, dell’inflazione), ma che forniscano soluzioni stabili. La difficoltà dell’attuale situazione obbliga ad affrontare i problemi non più rinviarli con situazioni ponte che accrescono solo le diseguaglianze. Forse il primo tassello per la riforma della pensioni va ricercato in un’altra riforma, quella del lavoro, che dovrebbe prevedere maggiori tutele (a cominciare dal salario minimo).

Per esempio, aumentando la base contributiva si garantirebbe sia una maggiore sostenibilità al sistema, sia la possibilità di creare le condizioni per una pensione più decorosa per le nuove generazioni. L’ipotesi aprirebbe anche una finestra su eventuali “anticipi soft”, tali da associare orario di lavoro ridotto a condizioni sincronizzate per la percezione della pensione (idea che sembra prendere piede nel Governo). Si verrebbe così incontro alle esigenze di persone ormai anziane e con problemi di salute, senza gravare sulle casse dello Stato, poiché tutto ciò che non rientra nel sistema contributivo, inevitabilmente ricade sulla fiscalità generale.

Le ipotesi formulate dall’Inps

L’Inps ha fatto i conti sulle alternative che Governo e parti sociali, nonostante l’avvicinarsi della tornata elettorale, non possono non prendere in considerazione per definire uno scenario chiaro e trasparente, in cui cittadini e operatori economici possano confrontarsi. Osservando l’articolazione delle moderne società, non si tratta tanto di trovare un algoritmo omnicomprensivo, ma una serie di opzioni a disposizione dei cittadini, in ossequio alla flessibilità sempre proclamata, ma quasi mai attuata. L’Istituto nazionale di previdenza sociale ha fornito tre proposte, con valori differenti che si possono manifestare nel triennio 2023-25. Vediamole.

1a) Ricalcolo contributivo per lavoratori con almeno 64 anni di età e almeno 35 anni di anzianità contributiva, a condizione di aver maturato un importo della pensione pari almeno a 2,2 volte l’importo dell’assegno sociale (circa 1.030 euro mensili); l’importo da raggiungere con il ricalcolo della pensione interamente con il metodo contributivo. Il costo massimo di 3,7 miliardi nel 2029, per poi scendere negli anni successivi per un costo complessivo che oscilla sui 6 miliardi.

2a) Elargizione di una pensione con penalizzazione sulla quota retributiva, rapportata agli anni di anticipo dell’uscita, sempre con il vincolo che l’assegno pensionistico sia almeno pari a 2,2 volte l’assegno sociale. Si richiede di accettare un ricalcolo della quota retributiva della pensione, la quale sarebbe ridotta di un fattore “pari al rapporto tra il coefficiente di trasformazione corrispondente all’età di uscita e il coefficiente relativo all’età della vecchiaia”. Indicativamente, per ogni anno di anticipo ci sarebbe un taglio del 3% della quota retributiva. Se si ipotizza un anticipo di tre anni, dai 67 (Legge Monti-Fornero) ai 64 anni, ne risulterà una decurtazione del 9%. Una misura, questa, che costerebbe tra i 5 e i 6 miliardi di euro l’anno (picco nel 2030, per poi degradare).

3a) Pensionamento a 63 anni di età e con 20 anni di contribuzione, a condizione di avere la parte di pensione calcolata con il contributivo almeno superiore a 1,2 volte l’assegno sociale (quindi circa 562 euro). Al momento del pensionamento l’interessato percepirebbe solamente la quota contributiva della pensione, mentre l’altra, calcolata secondo le regole dettate dal retributivo, verrebbe liquidata al raggiungimento dei 67 anni. Costo previsto 4 miliardi.

Possibili correttivi

Sulle ipotesi avanzate dall’INPS si possono operare altri correttivi. Uno di questi, riguarda l’ulteriore percezione della quota retributiva anche dopo i 67 anni (tre anni di anticipo e tre anni di ritardo, che porterebbe a 70 anni la pensione) il che porterebbe quasi a zero il costo per il sistema. Tra l’altro, agire sul pedale delle aliquote di decurtazione offrirebbe più vantaggi, primo tra tutti un ampio ventaglio di soluzioni finanziarie che procederebbe nelle indicazioni date da Guido Carlino, presidente della Corte dei Conti. Infatti, Carlino ha più volte sottolineato la necessità di garantire una maggiore flessibilità in uscita privilegiando il sistema contributivo. Un sistema, lo ricordiamo, unico in grado di garantire la sostenibilità economica perché non si rifà ad accomodamenti politici, ma alla correlazione tra quanto il lavoratore ha versato e l’attesa di vita.




Posted on: 2022/07/13, by :