Riformare la democrazia se non si vuole che sparisca

di Stefano Marengo|

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C’è un tema che, per dirla in termini psicoanalitici, appare sistematicamente forcluso – rimosso e dimenticato – dal dibattito politico: la necessità di una riforma profonda della democrazia. Con ciò non mi riferisco ai decennali, stanchi e logori dibattiti sulla “forma istituzionale” della Repubblica, ma a qualcosa di ben più fondamentale: la facoltà dei cittadini, del demos, di partecipare al potere e l’effettiva agibilità dei diritti – soprattutto dei diritti sociali – che dovrebbe sostanziare la partecipazione stessa.

Se a livello individuale la forclusione genera psicosi, a livello collettivo rischia di produrre mostri politici, interpretazioni della realtà (e conseguenti linee di azione) che hanno ben poca attinenza con le dinamiche storiche che hanno plasmato il presente. Un sintomo tipico di questa deriva è l’inversione del rapporto di causa ed effetto. Osserviamo, ad esempio, come la conclamata crisi del modello liberaldemocratico novecentesco venga costantemente addebitata, nel dibattito pubblico, alla presenza di movimenti sovranisti e populisti che, si dice, renderebbero fragili le tradizionali modalità di gestione del potere. Si tratta di una narrazione di comodo che non coglie in alcun modo i nodi essenziali della questione. Populismi e sovranismi, infatti, non sono cause, ma sintomi di una “malattia” ben più profonda che affligge i nostri sistemi a democrazia “avanzata”.

Da Thatcher a Reagan, il ritorno dei conservatori

A voler delineare una genealogia attendibile della crisi, si dovrebbe risalire alla fine degli anni Settanta e all’inizio degli anni Ottanta. Fu infatti in quel periodo che venne avviato il progressivo smantellamento del compromesso socialdemocratico che aveva garantito la coesione politico-sociale nel secondo dopoguerra. I caratteri di tale involuzione – la cosiddetta “rivoluzione conservatrice” – sono noti: drastico ridimensionamento della facoltà di intervento dello stato in campo economico; deregolamentazione dei mercati finanziari; massicci programmi di privatizzazione di asset strategici pubblici; ridimensionamento, e talvolta azzeramento, dei presidi di welfare.

Se tutto ciò, dal punto di vista della creazione e distribuzione della ricchezza, ha inaugurato una crescita esponenziale delle disuguaglianze e alimentato il sempre più frequente e catastrofico ripresentarsi di fenomeni speculativi, dal punto di vista dello ius publicum ha invece comportato una sostanziale trasferimento di potere politico dai corpi di rappresentanza democratica alla sfera economico-finanziaria e, contestualmente, lo sgretolamento dello stato sociale universalistico che, proponendosi di garantire a tutti i cittadini condizioni di vita materiale dignitose, si era imposto come il più potente fattore di tenuta e vitalità della democrazia stessa.

L’attacco (vincente) ai diritti sociali

In altri termini, in questi ultimi quarant’anni la politica si è resa sempre più vassalla dei “mercati” (un termine-feticcio che, dietro la patina di fatalità quasi metafisica, nasconde l’asservimento del potere pubblico agli interessi dei grandi potentati privati dell’economia e della finanza), mentre la frana che ha investito i diritti sociali ha creato aree sempre più vaste di marginalità e precarietà che non possono non produrre effetti destabilizzanti sui sistemi politici.

C’è quindi poco da stupirsi se ampi settori delle nostre società scelgono oggi di dare credito, per esasperazione o per convinzione, alle sirene dei populismi e dei sovranismi. Del resto, se non siamo ciechi di fronte alla storia del Novecento, sappiamo fin troppo bene che le pulsioni nazionaliste e razziste, qualunquiste e autoritarie risultano tanto più seducenti laddove il disagio non è intercettato da una proposta capace di essere credibile e portatrice di un programma autentico di riforma sociale e democratica.

Ma proprio questo è il punto: una risposta di questo tipo, oggi, non c’è. Al contrario, la politica che si professa “responsabile”, antisovranista e antipopulista, agisce sotto il segno della conservazione dell’esistente, non propone alcun vero cambiamento delle strutture fondamentali del sistema, non è in grado di immaginare e progettare il futuro se non come perpetuazione dell’oggi, proseguendo nella deriva degli ultimi quattro decenni.

Memoria storica: la crisi del liberalismo ottocentesco

Così facendo, però, i “responsabili” difensori della democrazia rischiano di essere i catalizzatori della sua fine, non fosse altro perché la loro sordità alle ragioni autentiche della crisi finirà prima o poi per rendere davvero incontenibile il fiume di pulsioni reazionarie che già oggi percorre la nostra società. La vera alternativa, dunque, non può essere tra sovranismo e tutela dell’esistente, ma tra sovranismo e riforma della democrazia, una riforma radicale che ricollochi la politica democratica su basi più ampie e solide.

A questo proposito val la pena osservare che l’epoca che stiamo vivendo ha un suo precedente nella crisi del liberalismo ottocentesco e della sua “democrazia censitaria”, un fenomeno che giunse a piena maturazione tra le due guerre mondiali. La mobilitazione al fronte e nelle retrovie di milioni di individui e, insieme, l’affermazione del movimento operaio, portarono allora enormi masse popolari ad organizzarsi e a premere per ottenere diritti politici e sociali che il paradigma liberale tradizionale si dimostrò incapace di riconoscere.

L’affermazione del Welfare state e il fallimento odierno

Poste di fronte a ciò, le classi dirigenti maturarono essenzialmente due tipi di risposte. La prima fu un arrocco a difesa del sistema morente, ciò che condusse, insieme ad altri fattori, alla nascita e affermazione di movimenti fascisti e reazionari. La seconda, che prese piede con il New Deal rooseveltiano e si affermò compiutamente dopo il 1945, fu la ridefinizione della democrazia sulla base del suffragio universale e del welfare state.

In altri termini, la crisi fu superata riconoscendo a tutti coloro che avessero raggiunto la maggiore età la facoltà di contribuire all’esercizio del potere politico e creando istituti di salvaguardia sociale capaci di sottrarre i cittadini alla precarietà e all’indigenza.

L’analogia con il passato non va forzata oltre una certa misura. Il richiamo a quanto avvenne il secolo scorso ha tuttavia la virtù di chiarire come non esista un unico modello di democrazia e come la democrazia non sia un mero dispositivo formale. Essa, al contrario, vive soltanto nella dialettica materiale con le istanze della società, nella misura in cui è in grado di intercettarle e governarle. Ma è proprio su questo punto che la politica odierna sta fallendo. La “responsabile” conservazione dell’esistente è un nuovo arrocco a difesa di un sistema morente, un rifiuto di riconoscere i suoi limiti e le sue falle, una forclusione, appunto, della vera questione di fondo: il bisogno di riformare la democrazia ponendola su un fondamento più ampio e resistente.

Allargare (nei fatti) la partecipazione delle masse alla politica

Ciò che manca, oggi, è un pensiero sufficientemente audace da porre questioni radicali, come ad esempio la rivendicazione del primato del politico sull’economico, la creazione di strumenti di governo democratico dell’economia, la riaffermazione di uno stato sociale che non si limiti ad agire a valle, come distribuzione di ricchezza, ma incida, a monte, sui meccanismi stessi di creazione del valore. La democrazia, in altri termini, non avrà futuro se non verrà ampliato l’ambito della partecipazione e del controllo esercitato dai cittadini e se non si individueranno forme più efficaci di perseguimento della giustizia sociale.

La domanda che va posta, a questo punto, è se un progetto di questo tipo possa ancora nascere nel nostro tempo, o almeno nell’Europa odierna reduce da quarant’anni di rivoluzione conservatrice che, all’insegna del liberismo sfrenato, ha riplasmato in senso ultraindividualistico la nostra antropologia e minato alla base le idee di cooperazione e coesione che sono le premesse di ogni costruzione democratica.

Dovremmo chiederci, insomma, se la democrazia liberale della nostra epoca, dominata da un’ideologia che riduce ogni pensare e ogni agire alla sfera meramente individuale, non abbia finito con l’obliterare i presupposti sociali che la reggono e dai quali soltanto può trarre alimento la sua eventuale riforma. A giudicare dal tenore e dai contenuti del dibattito politico, c’è davvero da essere pessimisti.




Posted on: 2022/08/19, by :