Saman Abbas sempre, non soltanto quando si muore

di Germana Tappero Merlo|

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Leggo di Saman Abbas, la giovane di origini pachistane fatta sparire dai famigliari perché voleva emanciparsi da una cultura che la pretendeva sposa in un matrimonio combinato, con un parente, perfetto sconosciuto perché lontano, nel loro Paese d’origine. Saman e il suo rifiuto erano diventati motivo di vergogna per l’intero clan, quel perdere la faccia e la dignità per una loro figlia considerata al pari di una prostituta. Intollerabile comportarsi così, al di fuori delle severe regole di un’antica tradizione patriarcale. Meglio sbarazzarsi del tutto di questa ignominia, a quanto pare considerata più grave di quella per una sicura accusa di omicidio.

E mentre leggo di Saman, ricevo un video in cui una donna afgana viene posta come bersaglio del lancio di un razzo da parte di guerriglieri talebani: fatta a brandelli e giubilo, al grido di ‘Allahu Akbar’, per il buon tiro del boia. E mi chiedo quale crimine avrà mai commesso per venir uccisa con questa brutale e cinica alternativa ad una morte, non certo meno crudele, tramite lapidazione. Ma questa ferocia non mi sorprende. È lo stesso Afghanistan ora al centro di ampie cronache per la fine dell’impegno dei militari della Nato, ma che non ha trovato altrettanto spazio e interesse nel commentare l’elevato numero di donne afgane cadute vittime negli ultimi mesi proprio della violenza omicida di fondamentalisti talebani e di radicali jihadisti pro-Stato Islamico (secondo report Onu, 212 dei 573 civili uccisi nel primo trimestre del 2021). Giornaliste, dottoresse, studentesse: tutte falcidiate da mani armate da un isterismo estremista che, vigliaccamente, colpisce esclusivamente le donne, e non solo perché indifese.

Con il loro lavoro, il loro studio, quelle donne inseguono la loro occasione di svoltare nella vita; è l’emancipazione che, però, è fuori dagli schemi islamisti, per cui non è gradita a quella società. È lo stesso desiderio di emancipazione che, paradossalmente, fa arruolare giovani donne, a volte adolescenti, nella guerriglia jihadista nell’Africa subsahariana, perché abbracciare la causa del jihad è come offrire a se stessi la speranza di una vita “migliore” di quella provata nella quotidianità sino a quel momento. È l’afflizione circa il proprio futuro quella che accomuna Saman, queste donne guerrigliere sino, forsanche, alla giovane donna afghana silurata fra il ghigno e lo scherno dei talebani. È una sofferenza che affonda le radici in una cultura islamista estrema, radicale, sessista in cui la donna è solo riproduttrice e nutrice, anche quando, in casa, è priva di quel velo o di quel burqa che l’Occidente immagina siano gli unici, veri simboli della sua sottomissione. La donna è, di fatto, solo oggetto funzionale alla stirpe, alle tradizioni di un fondamentalismo religioso e a cui, con toni solo poco più umanizzati, le è permesso, da poco tempo a questa parte, di uscire non più accompagnata da un membro della famiglia, di guidare un’auto e addirittura di proseguire negli studi. E poco importa se tutto ciò è avvenuto per opportunismo politico, come appunto nell’Arabia Saudita di un giovane sovrano in cerca di sostegno dei più giovani per il prosieguo e la successione della sua casata regnante.

Limitazioni della libertà individuale da sempre liquidate, dall’opinione pubblica dei Paesi occidentali, come un prodotto culturale da aborrire certamente, magari facendo campagne per togliere il velo nelle loro città, contro il burkini nelle loro spiagge, senza cercare, però, di penetrare più a fondo e comprendere le tante altre, vere discrepanze, anche domestiche, che fanno morire, in Italia, una giovane Saman. D’altronde è un Occidente superficiale che sembra ignorare che esistono profonde contraddizioni anche nella sua quotidianità.

Mi chiedo, infatti, se lo si debba considerare un fatto culturale anche il comportamento dei giudici della Corte di Appello di Firenze quando, nel 2015, diedero piena assoluzione a 7 giovani accusati di aver violentato una ragazza, nel 2008. Ora la Corte Europea di Strasburgo li ha condannati a risarcire la vittima perché il linguaggio e gli argomenti utilizzati, in quel processo e per la sentenza, da quel tribunale ‘trasmettevano pregiudizi sul ruolo delle donne che – secondo la Corte europea – esistono nella società italiana e che, a quanto pare, possono costituire un ostacolo alla tutela effettiva dei loro diritti, ossia quelli di vittime della violenza di genere.

Parole pesanti per una società che, giustamente, si indigna per Saman, che elenca con orrore la conta dei femminicidi e che per quelle vittime espone scarpette rosse nelle piazze, almeno per un giorno all’anno. Ma, appunto, dimentica le donne afghane, così come le guerrigliere africane, o gira le spalle alle osannate (un tempo) combattenti curde, e a tutte quelle altre donne che stanno lontano da qui, perché l’indignazione, inutile negarlo, è più facile per un qualcosa di brutto, di grave che ci tocca da vicino, accade a qualcuno di noi. O forse non è nemmeno più così, come mostra la sentenza della Corte Europea e i delitti contro il nostro universo femminile. È anche qui solo una questione culturale? Quale cultura, però, se il pregiudizio, e si sa, è da sempre l’anticamera della più becera ignoranza?




Posted on: 2021/06/09, by :