Scontiamo chi siamo. Ma il Recovery Fund è anche l’occasione per crescere davvero
|
Non hanno ragione Austria, Danimarca, Olanda e Svezia nella loro crociata anti-italiana per il Recovery Fund. Ed hanno torto nel perdere di vista il lato solidale su cui è stata fondata l’Europa del Mercato comune europeo nel 1957 a Roma. A Roma, appunto, non a Vienna, non a Copenaghen, né a l’Aja, né a Stoccolma. Però, non possiamo ignorare che ora a Bruxelles, alle prese con la richiesta di soldi decisivi per la nostra ripresa economica e civile, scontiamo tutto. Scontiamo una vita politicamente dissennata, irresponsabile, in cui abbiano creduto che comportamenti e atteggiamenti non fossero valutati fuori dai confini patri con il doveroso metro di misura dettato da buon senso e da moralità. O, peggio, come se gli altri non avessero memoria e che fossero nostri sodali nell’abitudine maestra e prevalente della dimenticanza, grazie alla quale ogni anno viene assegnata l’Oscar alla carriera all’Italia.
Scontiamo le colorite espressioni di alcuni nostri leader in giro per il mondo. Scontiamo le confidenze che quegli stessi leader si sono presi con altri capi di Stato e di governo, ma non perché non avessero titolo, ma perché non si fa, punto e basta. Scontiamo la perdita di credibilità sul piano diplomatico, arte raffinata e delicata, che richiede interpreti pari al ruolo di statista e non presi dalla strada, come se si fosse sul set di un film neorealista, risultato ancor più grave se dietro la macchina da presa non vi sono registi dal valore di Roberto Rossellini o di Vittorio De Sica. Scontiamo prove muscolari senza aver muscoli, che non siano quelli di cartapesta di moda per i dagherrotipi della Belle Époque. Scontiamo gli scandali hard o osé, in cui si è piegata e distorta la morale ad uso e consumo (soprattutto) dei potenti. Scontiamo la promiscuità con cui la politica (e non solo, sia chiaro) ha incartato la vita privata con quella pubblica, fino a non riuscire più a distinguere l’una dall’altra, offrendo un miserevole spettacolo e un pessimo esempio agli stessi cittadini.
Scontiamo la volgare espressione di piazza che ha trascinato un intero Paese nel vortice illusionistico che bastasse davvero una sola parola – “basta la parola!” come recitava lo sketch di un famoso Carosello – per risolvere problemi antichi e laceranti. Scontiamo la facilità con cui a più riprese elettorali e sull’onda di effimeri propositi di cambiamento si è occupato cariche pubbliche e istituzioni e si è rappresentato il Paese privi di meriti, di conoscenze, di sapere, di titoli di studio, di esperienza, di sacrificio, di reali relazioni umane dal basso. Scontiamo la barbarie che assegna la ragione a chi urla più forte. Scontiamo l’onnipresenza nei salotti televisivi di violenti maleducati che insultano, disprezzano, minacciano, accolti come Vati, mentre sono soltanto pericolosi mister Hyde, da cui stare alla larga. Scontiamo, in ultimo, il perduto desiderio di migliorarci – il vero genio italiano – con cui avevamo conquistato il mondo, senza dover ricorrere alla forza bruta di “otto milioni di baionette”, come delirava un dittatore. Insomma, c’è qualcosa di ben altro del “qui si fa l’Europa o si muore”, frase ad effetto, parafrasata da tempi eroici, diventata un tormentone da mesi e ora riproposta davanti al reale pericolo di veder ridotto a sfasciume il sogno europeo.
Non hanno ragione Austria, Danimarca, Olanda e Svezia a frapporre ostacoli di ogni genere nel concedere il Recovery Fund, il fondo da 750 miliardi di euro che dovrebbe dare energia a paesi come l’Italia messi in ginocchio dalla pandemia. La loro supponenza è fuori luogo. E a tre di essi (un po’ di umiltà non guasterebbe) il faticoso cammino dell’unità europea appartiene in minima parte. Però… per una volta, almeno una volta, evitiamo di cadere nel vittimismo e proviamo a convincere l’Europa che si è disposti a cambiare, che le nostre riforme non saranno finte riforme, che combatteremo con perseveranza l’evasione e l’elusione fiscale, che non scenderemo mai più a patti con la criminalità organizzata, che difenderemo il lavoro e soprattutto la dignità del lavoro e che, da persone perbene, onoreremo i nostri debiti. I propositi, se convincenti, scaldano i cuori ed aiutano la mano a staccarsi dal portafoglio.
Posted on: 2020/07/20, by : admin
Scontiamo le colorite espressioni di alcuni nostri leader in giro per il mondo. Scontiamo le confidenze che quegli stessi leader si sono presi con altri capi di Stato e di governo, ma non perché non avessero titolo, ma perché non si fa, punto e basta. Scontiamo la perdita di credibilità sul piano diplomatico, arte raffinata e delicata, che richiede interpreti pari al ruolo di statista e non presi dalla strada, come se si fosse sul set di un film neorealista, risultato ancor più grave se dietro la macchina da presa non vi sono registi dal valore di Roberto Rossellini o di Vittorio De Sica. Scontiamo prove muscolari senza aver muscoli, che non siano quelli di cartapesta di moda per i dagherrotipi della Belle Époque. Scontiamo gli scandali hard o osé, in cui si è piegata e distorta la morale ad uso e consumo (soprattutto) dei potenti. Scontiamo la promiscuità con cui la politica (e non solo, sia chiaro) ha incartato la vita privata con quella pubblica, fino a non riuscire più a distinguere l’una dall’altra, offrendo un miserevole spettacolo e un pessimo esempio agli stessi cittadini.
Scontiamo la volgare espressione di piazza che ha trascinato un intero Paese nel vortice illusionistico che bastasse davvero una sola parola – “basta la parola!” come recitava lo sketch di un famoso Carosello – per risolvere problemi antichi e laceranti. Scontiamo la facilità con cui a più riprese elettorali e sull’onda di effimeri propositi di cambiamento si è occupato cariche pubbliche e istituzioni e si è rappresentato il Paese privi di meriti, di conoscenze, di sapere, di titoli di studio, di esperienza, di sacrificio, di reali relazioni umane dal basso. Scontiamo la barbarie che assegna la ragione a chi urla più forte. Scontiamo l’onnipresenza nei salotti televisivi di violenti maleducati che insultano, disprezzano, minacciano, accolti come Vati, mentre sono soltanto pericolosi mister Hyde, da cui stare alla larga. Scontiamo, in ultimo, il perduto desiderio di migliorarci – il vero genio italiano – con cui avevamo conquistato il mondo, senza dover ricorrere alla forza bruta di “otto milioni di baionette”, come delirava un dittatore. Insomma, c’è qualcosa di ben altro del “qui si fa l’Europa o si muore”, frase ad effetto, parafrasata da tempi eroici, diventata un tormentone da mesi e ora riproposta davanti al reale pericolo di veder ridotto a sfasciume il sogno europeo.
Non hanno ragione Austria, Danimarca, Olanda e Svezia a frapporre ostacoli di ogni genere nel concedere il Recovery Fund, il fondo da 750 miliardi di euro che dovrebbe dare energia a paesi come l’Italia messi in ginocchio dalla pandemia. La loro supponenza è fuori luogo. E a tre di essi (un po’ di umiltà non guasterebbe) il faticoso cammino dell’unità europea appartiene in minima parte. Però… per una volta, almeno una volta, evitiamo di cadere nel vittimismo e proviamo a convincere l’Europa che si è disposti a cambiare, che le nostre riforme non saranno finte riforme, che combatteremo con perseveranza l’evasione e l’elusione fiscale, che non scenderemo mai più a patti con la criminalità organizzata, che difenderemo il lavoro e soprattutto la dignità del lavoro e che, da persone perbene, onoreremo i nostri debiti. I propositi, se convincenti, scaldano i cuori ed aiutano la mano a staccarsi dal portafoglio.
Posted on: 2020/07/20, by : admin