Se non c’è vera politica, di governi tecnici alla fine si muore
di Stefano Marengo|
|Il discorso tenuto dal professor Mario Draghi in Senato ha per molti versi fatto emergere le profonde difficoltà in cui oggi versa la liberaldemocrazia. Come molti osservatori hanno fatto notare, il Presidente del Consiglio, con il suo protratto appello diretto agli italiani, ha rivelato di non essere estraneo alle seduzioni del cosiddetto “populismo delle élites”. In secondo luogo, e più gravemente, l’aut aut imposto al Parlamento, un vero e proprio“prendere o lasciare”, ha segnalato l’indisponibilità di principio, da parte del premier, a qualsiasi forma di mediazione. Peggio ancora, il messaggio politico che si è formato ieri l’altro, 20 luglio, tra i banchi parlamentari e all’esterno, non si è rivelato così originale rispetto ad esperienze passate, recenti e non: i partiti sarebbero stati tanto più meritevoli di lode, quanto meno criticamente avessero aderito al programma del “governo dei migliori”.
Nello svolgere queste considerazioni non nutro in alcun modo il proposito di sondare le intenzioni di Draghi, che mi rimangono in larga parte oscure; tanto meno – è bene specificarlo – intendo giustificare il comportamento di quei partiti (Lega, Forza Italia e, su un fronte diverso, il M5s) che hanno fornito una pessima prova di sé, non assumendosi nemmeno la responsabilità di togliere apertamente la fiducia al governo con l’epilogo conseguente del voto il 25 settembre.
Il problema che vorrei porre, ancora una volta, è quello del mito ideologico dei governi tecnici. Da trent’anni, infatti, viviamo nell’attesa quasi messianica di personalità estranee alla politica che, per il loro prestigio, si ritiene possano miracolosamente imporre l’evidenza di un unico, cristallino “interesse nazionale”. È un pregiudizio talmente radicato che buona parte della classe dirigente ha finito per crederci. Peccato però che la realtà si incarichi puntualmente di smentire l’illusione.
L’amara verità è che non esistono – e non possono esistere – governi e premier tecnici dotati delle doti taumaturgiche di cui li vorremmo capaci. Nella dialettica politica non ci sono figure super partes in grado, in quanto tali, di incarnare “l’interesse nazionale”, il “bene supremo del Paese”. Ci sono, invece, interessi molteplici, talvolta divergenti, che è compito dei partiti rappresentare e che chi governa deve saper mediare, senza peraltro potersi chiamar fuori dalla mischia. Questa, in fondo, è l’essenza della democrazia moderna. Ritenere che le cose debbano andare diversamente equivale, né più né meno, a disconoscere la democrazia stessa.
Il fatto è che ogni tecnico, come qualsiasi altra persona, coltiva inevitabilmente una visione del mondo e interessi particolari (e non potrebbe essere altrimenti) e il più delle volte gode del sostegno di gruppi di interesse altrettanto specifici che ne hanno favorito la cooptazione. Come dimenticare che l’arrivo dello stesso Draghi a Palazzo Chigi fu favorito anche dalle pressioni degli industriali preoccupati che i loro interessi (per l’appunto) non fossero sufficientemente tutelati dal governo Conte II? Ma allora questo significa che un tecnico, quando entra nell’agone politico, e per di più con incarichi di alta responsabilità, è per forza di cose chiamato ad agire politicamente, mediando gli interessi di cui è espressione con gli interessi di cui altri sono portatori.
È su questo aspetto che Draghi, come i tecnici che lo hanno preceduto, ha dimostrato tutti i suoi limiti. Sin dall’inizio del suo mandato, al riparo entro la sua aura di prestigio soprattutto internazionale, il premier dimissionario si è per lo più dimostrato refrattario al dialogo con chiunque si sia fatto portatore di istanze critiche rispetto alla sua linea di governo. Una linea che, con la complicità disarmante dei media, è stata costantemente presentata come l’unica degna di legittimità e che il Presidente del Consiglio non ha mai, in nessun caso, inteso mettere in discussione. Da qui l’evidente fastidio, più volte esplicitato, per le ritualità parlamentari e la pressoché totale sordità rispetto alle istanze di movimenti e organizzazioni di base (valga come esempio paradigmatico la sprezzante sufficienza con cui è stata trattata la vertenza Gkn e il tema, più ampio, delle delocalizzazioni).
Naturalmente sarebbe ingeneroso e sbagliato addossare ai tecnici, e a Draghi nella circostanza, più oneri di quelli che hanno. Di certo non è una colpa se le loro carriere manageriali li hanno condotti a maturare attitudini al comando più che all’arte del dialogo e della mediazione. La verità è che, se ci troviamo al punto in cui siamo, la responsabilità principale è delle classi dirigenti politiche. Non mi riferisco, con ciò, alle contingenze dell’oggi, ma a una deriva di lunga durata che parte almeno dagli anni Novanta, da “Mani pulite”in avanti.
Nel trentennio che abbiamo alle spalle, infatti, i partiti hanno sostanzialmente abdicato, almeno nel loro discorso pubblico, al ruolo di rappresentanti di specifici interessi sociali e di operatori, su questa base, di eventuali mediazioni con interessi concorrenti. In questo modo si è creato il feticcio di un unico interesse nazionale che sarebbe in quanto tale autoevidente (salvo poi non saper indicare mai di preciso in che cosa davvero consista). Si è, in altri termini, obliterata la dialettica conflittuale che caratterizza ogni società per addivenire a un irenismo ideologico secondo il quale solo l’ipotesi dell’esistenza di interessi divergenti suona come un atto sovversivo.
Di conseguenza la politica ha smesso di essere quello che dovrebbe essere, ossia confronto, anche aspro, tra visioni alternative del mondo e arte della sintesi. La si è ridotta a semplice amministrazione (e perpetuazione) dell’esistente. Non a caso non esiste in circolazione un politico, uno, che in una fase così drammatica per destini dell’umanità rispetto al surriscaldamento del pianeta, abbia prodotto uno straccio di visione per le scelte (ineludibili) future.
Sic stantibus rebus, ritornando a monte, se di amministrazione si tratta, chi meglio di un tecnico può farsene carico? Il problema è che il conflitto sociale e la molteplicità degli interessi, che ci piaccia o meno, non sono mai scomparsi, ed è con questa realtà che, prima o poi, occorrerà tornare a misurarsi. Senza scorciatoie tecniche e con il lavoro lungo e faticoso della vera politica.
Posted on: 2022/07/22, by : admin
Nello svolgere queste considerazioni non nutro in alcun modo il proposito di sondare le intenzioni di Draghi, che mi rimangono in larga parte oscure; tanto meno – è bene specificarlo – intendo giustificare il comportamento di quei partiti (Lega, Forza Italia e, su un fronte diverso, il M5s) che hanno fornito una pessima prova di sé, non assumendosi nemmeno la responsabilità di togliere apertamente la fiducia al governo con l’epilogo conseguente del voto il 25 settembre.
Il problema che vorrei porre, ancora una volta, è quello del mito ideologico dei governi tecnici. Da trent’anni, infatti, viviamo nell’attesa quasi messianica di personalità estranee alla politica che, per il loro prestigio, si ritiene possano miracolosamente imporre l’evidenza di un unico, cristallino “interesse nazionale”. È un pregiudizio talmente radicato che buona parte della classe dirigente ha finito per crederci. Peccato però che la realtà si incarichi puntualmente di smentire l’illusione.
L’amara verità è che non esistono – e non possono esistere – governi e premier tecnici dotati delle doti taumaturgiche di cui li vorremmo capaci. Nella dialettica politica non ci sono figure super partes in grado, in quanto tali, di incarnare “l’interesse nazionale”, il “bene supremo del Paese”. Ci sono, invece, interessi molteplici, talvolta divergenti, che è compito dei partiti rappresentare e che chi governa deve saper mediare, senza peraltro potersi chiamar fuori dalla mischia. Questa, in fondo, è l’essenza della democrazia moderna. Ritenere che le cose debbano andare diversamente equivale, né più né meno, a disconoscere la democrazia stessa.
Il fatto è che ogni tecnico, come qualsiasi altra persona, coltiva inevitabilmente una visione del mondo e interessi particolari (e non potrebbe essere altrimenti) e il più delle volte gode del sostegno di gruppi di interesse altrettanto specifici che ne hanno favorito la cooptazione. Come dimenticare che l’arrivo dello stesso Draghi a Palazzo Chigi fu favorito anche dalle pressioni degli industriali preoccupati che i loro interessi (per l’appunto) non fossero sufficientemente tutelati dal governo Conte II? Ma allora questo significa che un tecnico, quando entra nell’agone politico, e per di più con incarichi di alta responsabilità, è per forza di cose chiamato ad agire politicamente, mediando gli interessi di cui è espressione con gli interessi di cui altri sono portatori.
È su questo aspetto che Draghi, come i tecnici che lo hanno preceduto, ha dimostrato tutti i suoi limiti. Sin dall’inizio del suo mandato, al riparo entro la sua aura di prestigio soprattutto internazionale, il premier dimissionario si è per lo più dimostrato refrattario al dialogo con chiunque si sia fatto portatore di istanze critiche rispetto alla sua linea di governo. Una linea che, con la complicità disarmante dei media, è stata costantemente presentata come l’unica degna di legittimità e che il Presidente del Consiglio non ha mai, in nessun caso, inteso mettere in discussione. Da qui l’evidente fastidio, più volte esplicitato, per le ritualità parlamentari e la pressoché totale sordità rispetto alle istanze di movimenti e organizzazioni di base (valga come esempio paradigmatico la sprezzante sufficienza con cui è stata trattata la vertenza Gkn e il tema, più ampio, delle delocalizzazioni).
Naturalmente sarebbe ingeneroso e sbagliato addossare ai tecnici, e a Draghi nella circostanza, più oneri di quelli che hanno. Di certo non è una colpa se le loro carriere manageriali li hanno condotti a maturare attitudini al comando più che all’arte del dialogo e della mediazione. La verità è che, se ci troviamo al punto in cui siamo, la responsabilità principale è delle classi dirigenti politiche. Non mi riferisco, con ciò, alle contingenze dell’oggi, ma a una deriva di lunga durata che parte almeno dagli anni Novanta, da “Mani pulite”in avanti.
Nel trentennio che abbiamo alle spalle, infatti, i partiti hanno sostanzialmente abdicato, almeno nel loro discorso pubblico, al ruolo di rappresentanti di specifici interessi sociali e di operatori, su questa base, di eventuali mediazioni con interessi concorrenti. In questo modo si è creato il feticcio di un unico interesse nazionale che sarebbe in quanto tale autoevidente (salvo poi non saper indicare mai di preciso in che cosa davvero consista). Si è, in altri termini, obliterata la dialettica conflittuale che caratterizza ogni società per addivenire a un irenismo ideologico secondo il quale solo l’ipotesi dell’esistenza di interessi divergenti suona come un atto sovversivo.
Di conseguenza la politica ha smesso di essere quello che dovrebbe essere, ossia confronto, anche aspro, tra visioni alternative del mondo e arte della sintesi. La si è ridotta a semplice amministrazione (e perpetuazione) dell’esistente. Non a caso non esiste in circolazione un politico, uno, che in una fase così drammatica per destini dell’umanità rispetto al surriscaldamento del pianeta, abbia prodotto uno straccio di visione per le scelte (ineludibili) future.
Sic stantibus rebus, ritornando a monte, se di amministrazione si tratta, chi meglio di un tecnico può farsene carico? Il problema è che il conflitto sociale e la molteplicità degli interessi, che ci piaccia o meno, non sono mai scomparsi, ed è con questa realtà che, prima o poi, occorrerà tornare a misurarsi. Senza scorciatoie tecniche e con il lavoro lungo e faticoso della vera politica.
Posted on: 2022/07/22, by : admin