Sentenza Assange, la stampa libera “ringrazia”…

di Menandro|

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“Mi citi una decisione presa da Lang nei 10 anni da Primo ministro che non abbia favorito gli interessi degli Stati Uniti. Coraggio! Non è una domanda trabocchetto. L’Iraq, la politica in Medio Oriente lo Scudo spaziale, i missili nucleari americani comprati, il supporto all’estradizione di terroristi…” È una delle frasi che disvelano la natura de “L’uomo nell’ombra” (2010), film di grande rigore etico e implicazioni politiche diretto Roman Polanski, che immortala il rapporto tra un ex primo ministro britannico (che molti hanno identificato in Tony Blair) e gli Stati Uniti.

Ora, con l’accoglimento dell’estradizione di Julian Assange, australiano, 50 anni, quell’elenco si può dire aggiornato, a conferma che non vi sono dubbi: la Gran Bretagna rimane il più fidato alleato occidentale degli Usa. Al numero 10 di Downing Street e a Buckingham Palace possono tirare finalmente un sospiro di sollievo. La sentenza di primo grado del 5 gennaio 2021, che negava l’estradizione di Assange, si è rivelata un semplice incidente di percorso. L’Alta Corte di Londra vi ha posto rimedio ribaltando la decisione e per non lasciare nulla al caso, lo ha fatto nella giornata mondiale dei diritti umani, istituita dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Insomma, un messaggio chiaro e potente ai popoli che credono nell’informazione libera… e nel controllo del Potere da parte della stampa.

Il fondatore di Wikileaks è accusato dagli Stati Uniti di spionaggio per rivelazioni top secret relative alle guerre in Iraq e Afghanistan. Un’accusa per aver fatto il suo mestiere nel denunciare e gettato una luce su torture, violenze, vessazioni rimane secretate negli archivi militari. Documenti ricevuti dalla ex militare Chelsea Manning, riguardanti crimini di guerra. Un’azione di informazone trasparente per la quale ha ricevuto svariati encomi da privati e personalità pubbliche, onorificenze (tra cui il Premio Sam Adams, la “Gold medal for Peace with Justice” da Sydney Peace Foundation e il “Martha Gellhorn Prize for Journalism”, ed è stato ripetutamente proposto per il Premio Nobel per la pace.1

Secondo più fonti gli avvocati statunitensi, in un clima di magnanimità prenatalizia, hanno informato l’Alta Corte di Londra che Assange tuttalpiù rimarrebbe ospite delle galere a stelle e strisce al massimo tra i 4 e i 6 anni. Una bazzecola, in effetti, se paragonati ai 175 anni di cui si parla dall’inizio della vicenda. Dinanzi a tali assicurazioni, che rimettono in “equilibrio” la bilancia della giustizia tra chi vive da libero cittadino negli Usa dopo aver commesso vari reati in Iraq e Afghanistan e il signor Assange, ristretto dall’11 aprile del 2019 nella Her Majesty Prison Belmarsh (dopo 7 anni trascorsi da rifugiato politico nell’ambasciata londinese dell’Ecuador), i giudizi britannici hanno sentenziato che il prigioniero non è più rischio di tendenze suicide. Dunque, il suo caso va rivisto. In altri termini, per i giudici di sua Maestà britannica non è importante se sei colpevole o innocente, ma la durata della pena che ti sarà comunque inflitta a prescindere, come direbbe Totò. Il mondo si è definitivamente capovolto.

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