Soluzioni contro la pandemia? La strategia svedese, poco nota, andrebbe (almeno) studiata

di Emanuele Davide Ruffino
e Germana Zollesi |

|

Non conoscendo appieno il Coronavirus, in Svezia si è scelta la strada della prudenza e della prevenzione condivisa, con poche costrizioni (in proposito rimando all’articolo di Stefano Cavalitto, fresco di conio)1 e con spese limitate onde non dare origine a sprechi: da noi anche le forze armate nelle strade (ma non essendo in Cina, la loro efficacia è limitata) e spese pazze in libertà (e qualcuno riesce a realizzare lauti guadagni).

Responsabilità individuali e collettive

L’esempio della Svezia è un’esperienza alternativa di cui si parla poco e quel poco non rispecchia appieno la realtà. In primis, bisogna sfatare il mito che in Svezia sia rimasto tutto aperto o che le autorità abbiano considerato la patologia alla stregua di un influenza o che si sia perseguita l’immunità di gregge. Infatti, è più corretto parlare di un lockdown virtuale ma, come ha affermato Anders Tegnell, l’epidemiologo che ha ideato la discussa strategia svedese, non vi è mai stata una “chiusura forzata”, evitando così il restringimento delle libertà personali, lasciando alle autorità periferiche (dai presidi, ai datori di lavoro) ampie possibilità operative. La ricerca della condivisione delle misure adottate, ha permesso, superata la prima ondata, di mantenere quasi inalterate le stesse misure per tutto il periodo perché erano norme di igiene entrate nello skill di gran parte della popolazione. Così si è insistito con messaggi del tipo: “Lavora a casa, se puoi. Non utilizzare mezzi di trasporto pubblico, se non devi. Vai al lavoro in bicicletta! Fallo per tua nonna!”.

Le scarse conoscenze fin ora acquisite sul Covid-19 (anche se molto è stato fatto in questi mesi) ha portato a sperimentare soluzioni diverse (per non dire contradditorie), di cui non si conoscono ancora le conseguenze. In questo contesto per gli esperti di Stoccolma “meno decisioni invasive si assumono, meno danni si compiono”. A dire il vero la Svezia ha finora presentato risultanze peggiori dei paesi limitrofi (Norvegia, Danimarca e Finlandia), ma decisamente migliori rispetto ai dati registrati sul vecchio continente. Per gli svedesi il nostro errore (o forse la nostra illusione) è stata quella di pensare che l’epidemia potesse scomparire nel giro di un breve lasso di tempo.

Anzi, si è quasi immaginato un patto con il destino, per cui maggiore è il sacrificio cui ci sottoponiamo, più rapida è la risoluzione del problema. Invece di stregonizzare il problema, gli svedesi hanno cercato di rallentare la pandemia, consci che la malattia non si sarebbe fermata per mancanza di untori o per qualche altra combinazione astrale, ma vi sarebbe stato un lungo periodo di convivenza, almeno fino all’introduzione di un vaccino o dell’individuazione di farmaci altamente efficaci. E se i periodi saranno lunghi, occorre evitare strutture organizzative (garantendo i servizi essenziali e lasciando libero il maggior numero di posti letto in terapia intensiva) e valutare attentamente le complicanze che possono derivare, dall’economia alla tollerabilità dei soggetti più fragili, facili prede dell’alcolismo o di complicanze psichiatriche. Ora che l’Europa è colpita con la, più o meno preannunciata, seconda ondata della Covid-19, con un balzo esponenziale dei contagi in molti Paesi, tra i quali l’Italia, in Svezia il problema sicuramente è presente, come testimonia l’aumento dei contagi, ma con virulenza meno aggressiva e senza violenze nelle strade.

Primo comandamento: Educare. Considerazione al seguito: non costringere

La scorsa primavera la Svezia non ha imposto il lockdown duro (strumento sicuramente più efficace, non però scevro da contraccolpi sociali) ma, grazie ai continui passaggi televisivi di Anders Tegnell nel suo ruolo di direttore dell’Agenzia di sanità pubblica svedese, ha fornito alla popolazione la versione ufficiale della situazione, nonché informazioni e nozioni di carattere preventivo, opportune, se non indispensabili, per contrastare la pandemia. In effetti si può affermare che la maggioranza della popolazione si è sottoposta volontariamente ad una forma di clausura riducendo le possibilità di contagio. Qualcuno ai pub ci è andato lo stesso, ma con afflussi limitati, in compenso le misure di prevenzione sono state mantenute anche nel periodo in cui l’Europa si rilassava (forse un po’ troppo).

La Svezia può vantare uno stabile rapporto di fiducia creatosi tra la popolazione e il governo e si riconosce l’autorevolezza dell’agenzia di sanità pubblica. In generale, la popolazione svedese ha seguito le indicazioni del governo e ne ha condiviso la filosofia centrata sul concetto di persuasione, cercando di evitare il più possibile formali imposizioni (per altro di difficile attuazione). Le indicazioni vengono cioè percepite come un dovere morale, senza la necessità di sanzioni. In Italia, storicamente ritenendo la “raccomandazione” poco più di un vago consiglio, in assenza di sanzioni, la popolazione tende troppo spesso a seguire un campanilismo ideologico (anche se ormai siamo rimasti senza ideologie). Il sistema è stato così costretto a emanare direttive tassative e, come tali, inadatte ad adattarsi alle singole necessità. A ciò si associa una classe manageriale incapace di prendere decisioni, se non riportando pedestremente quanto scritto in una norma e, ciò che è peggio, senza valutarne gli effetti indotti. Anziché isolare i soggetti a rischio (anziani e altri soggetti deboli) e proteggere le persone che entrano maggiormente in contatto con altri (dal personale delle pulizie negli ospedali, agli operatori del settore trasporti) si è preferito adottare prescrizioni generalizzate (di grande effetto mediatico).

In Svezia, anziché soluzioni miracolose, si è cercato di imparare a convivere con il virus cercando di porre in essere interventi sostenibili sul lungo periodo (la così detta strategia della “Maratona”), evitando di chiudere tutto, ma focalizzandosi sulla sensibilizzazione della popolazione. Si dovrebbe calcolare quante volta, in media, un italiano e uno svedese si lavano le mani; quanti non escono se si avverte anche un minimo sintomo; quante volte, in questi mesi, le prime pagine sono occupate da notizie sul Coronavirus; quanti mantengono le distanze di sicurezza e quanti evitano assembramenti. Più che sofisticati strumenti normativi e costosi interventi, basterebbe un po’ di senso civico.

L’osservanza della continuità terapeutica, nota come compliance

La cultura formatasi intorno alla sanità, a ben vedere, aveva già individuato strumenti per affrontare alcuni aspetti della pandemia: la compliance, intesa quale “osservanza della continuità terapeutica”, cioè il grado di rispondenza tra il comportamento di un soggetto in termini, di assunzione di medicinali, esecuzione di un regime dietetico, capacità di adeguare i propri stili di vita ai consigli/prescrizioni del medico o del personale sanitario che lo ha preso in cura (e probabilmente gli svedesi sotto questo aspetto ci battono). Sia sotto il profilo clinico che in un’ottica sociale non si possono attuare le soluzioni more expensive e poi non assicurare che vengano seguite, con la dovuta perizia, le prescrizioni consigliate: si tratta di razionalizzare l’uso delle risorse messe a disposizione e ciò pone un problema di equità distributiva, in quanto la non aderenza ai piani terapeutici o alla indicazioni di carattere preventivo, comporta un maggior impegno di risorse verso il soggetto sottraendole ad altri. Lo stesso dovrebbe potersi dire sulle azioni di contrasto del corona virus. Tra le tante polemiche di questi giorni, nessuno sa quale sia la scelta migliore. Per valutare le differenti strategie bisognerà studiare e conoscerne a fondo la storia di questi giorni, con la consapevolezza che la scelta migliore in un contesto, potrebbe non esserlo in altri.

_______