Spagnola e Covid-19, perché la storia non si ripeta

di Germana Zollesi |

|

Il governo Draghi ha varato l’estensione del Green Pass alle scuole, anticamera di nuovi ampliamenti, e nel contempo ha dato segnale di via libera alla terza dose, mentre si parla apertamente di obbligatorietà del vaccino. Al di là delle fibrillazioni all’interno della maggioranza, con la Lega di Salvini che non si presenta al voto a ranghi compatti per denunciare il suo (ennesimo) malpancismo che l’associa a Fratelli d’Italia, il presidente del consiglio – sostenuto dal Quirinale (e dietro le quinte delle forze confindustriali) – prosegue per la sua strada. La pandemia, è il chiaro messaggio di Draghi al Paese, è ancora tra di noi. E il monito ci viene anche dalla Storia, quando in quel lontano 1918, in pieno conflitto mondiale, l’umanità conobbe gli effetti devastanti del virus chiamato “Spagnola”.

Fu chiamata “Spagnola” solo perché la stampa spagnola, non essendo la Spagna coinvolta nel conflitto mondiale, non era soggetta a censura (mentre i paesi belligeranti miravano a impedire la diffusione di notizie che potevano compromettere il morale delle truppe). Per gli spagnoli era la “portoghese”, per i polacchi la “bolscevica”, per i paesi nordici veniva dal sud (e viceversa), per molti era contenuto in un nuovo farmaco l’aspirina, proveniente dalla Germania, per altri la portavano i sommergibili o i giapponesi (di qui il nome di influenza Sumu). Un secolo dopo almeno si converge sul nome: Coronavirus, Covid, Sars cov 19, per il resto alcuni parallelismi possono tornare utili.

Reticenze e silenzi sul virus

La notizia dell’epidemia di influenza spagnola non venne mai data ufficialmente e il numero di morti rimase per i contemporanei un gran mistero. Un po’ per una forma di censura culturale, più di quella esercitata dagli organi all’uopo destinati, un po’ perché i disastri realmente prodotti si sono venuti a conoscere anni dopo. All’epoca i morti per la spagnola semplicemente nessuno li contava.

Tomasso Rossini, colonnello medico dell’Esercito Italiano, non capiva il perché tanta attenzione per una semplice influenza. Anzi il diffondere notizie sulla spagnola significava essere accusati di disfattismo: si era al termine del primo conflitto mondiale, sul fronte italiano gli austriaci si sfiancavano sulla linea del Piave e l’accusa poteva tramutarsi facilmente in tradimento. Poi si registrarono 50 milioni di morti e forse un miliardo di persone contagiate. All’epoca, la dottoressa Anna Kuliscioff, per spiegare a suo marito Filippo Turati, leader dei socialisti italiani, la gravità della pandemia, si “limitava” a riferirgli della lunghezza dei necrologi sui più importanti giornali milanesi. A testimoniare la gravità della situazione era soprattutto l’andamento dei prezzi dei farmaci sintomatici: il chinino da 33 centesimi salì a 5 lire, ma il problema vero era riuscire a trovarlo.

Naturalmente anche in quell’occasione ci fu un rimbalzo di responsabilità: i farmacisti diedero la colpa ai grossisti, questi alle aziende farmaceutiche ed ovviamente fu più volte richiesto un intervento pubblico per calmierare i prezzi. Diversi furono i rimedi sperimentati in quel periodo: dai 4 biccieri di vino, agli infusi e dentifrici alla menta, dalla ditta Arnaldi che, previo compenso, inviava a domicilio una valigetta piena di rimedi, al H.A. Klein di Chicago che riferiva di aver trattato, sia privatamente che presso l’Alexian Brother’s Hospital, di Chicago, un certo numero di casi d’influenza e polmonite influenzale con 20-30 ml di soluzione satura di cloridrato di chinino iniettata per via endovenosa e somministrava anche 4 grani (0,26 g) di bisolfato di chinino, insieme a 6 grani (0,39 g) di salicilato di sodio.

A suo dire i risultati erano soddisfacenti. Tant’è che la rivista medica americana JAMA (Journal of American Medical Association) pubblicava, nella rubrica “Correspondence”, a firma dello stesso Klein, un articolo descrivendo le tre fasi della malattia: la prima caratterizzata da brividi, febbre e dolori muscolari; la seconda, da conseguenze sulla respirazione; la terza, da problemi circolatori, dispnea e cianosi (specificando che la cura risultava maggiormente efficace se somministrata nei primi tre giorni dall’insorgere dei primi sintomi).

Mussolini, allora direttore del Popolo d’Italia, sosteneva che bastava sospendere la sudicia abitudine di stringersi la mano per fermare la pandemia. La festa della vittoria, 11 novembre 1918, con la gente scesa per le strade per festeggiare la vittoria, rappresentò la peggior sconfitta per l’Europa della Prima guerra mondiale. In Italia ci furono 600.000 morti su 30 milioni di abitanti (poco meno dei morti in trincea). Nel resto del mondo andò anche peggio: 16 milioni di morti in guerra, 50 milioni per la pandemia.

L’evoluzione catastrofica della pandemia

L’influenza spagnola si presentò come un’influenza un po’ più aggressiva. Il generale tedesco Erich Ludendorff, stratega degli eserciti degli Imperi centrali, accusò la malattia di averlo distolto dalla vittoria finale, tralasciando il determinante peso del sostegno dell’esercito Usa, ma è un dato oggettivo che tra le truppe del Kaiser il numero di soldati in infermeria non giovò certo alle offensive sul fronte Occidentale nel 1918.

In America fu il dottor Loring Miner, medico della contea di Haskell in Kansas a segnalare nel gennaio 1918 alle autorità sanitarie un anomalo manifestarsi di persone contagiate da una malattia infettiva, causata dal virus influenzale che, danneggiando le mucose delle vie respiratorie, permetteva alle tossine virali di penetrare nel corpo. La prima rilevanza mediatica la diede un giornale locale “The Santa Fe monitor” scrivendo: “La maggior parte del Paese soffre di grippe o polmonite”.

L’esplosione dell’epidemia si fa risalire al 4 marzo 1918 allorché, presso la base militare americana di Camp Funston, fu registrato il primo soldato malato di influenza spagnola. Due settimane dopo 1.100 soldati erano già ricoverati in ospedale. La necessità di spostare truppe sui campi di battaglia fece da veicolo al virus e la reticenza perseguita nel non volere far sapere al nemico (e alle stesse truppe combattenti) di essere nel pieno di una pandemia fece esplodere il contagio. Con l’arrivo dell’estate ci si illuse che fosse finita, tanto da far scrivere sul bollettino del governo francese: “l’epidemia sta per concludersi ed è stata di tipo benigno”.

La seconda ondata epidemica, ancor più letale, invece arrivò nell’autunno 1918: fu un ufficiale dell’intelligence della Marina militare americana a segnalare la diffusione del virus in Svizzera. Inizialmente, i funzionari dei vari governi e la stampa continuarono a minimizzare e ciò non permise l’attuazione di forme di contenimento. Ai primi di settembre presso l’ospedale di Camp Devens in Massachusetts, fu ricoverato un soldato con diagnosi di meningite, in realtà era la “spagnola”. La volontà di festeggiare la vittoria portò a programmare parate e manifestazioni di piazza e le redazioni giornalistiche sottovalutarono gli allarmi, operando una forma di censura. Fu così che due giorni dopo la parata tenutasi a Filadelfia il 28 Settembre scoppiò, inesorabilmente, la pandemia.

Parallelismo tra passato e presente

I virus nascono, si sviluppano e si modificano, raggiungono il picco e spariscono. Però è un dovere etico-morale fare in modo che la cosa avvenga con il minor numero di lutti possibile, superando ogni vincolo burocratico e le polemiche da qualsivoglia parte provengano. Probabilmente per una congiura del silenzio, all’inizio del secolo precedente, di pandemia non se ne parlò molto. Oggi forse siamo in presenza di una congiura del parlarne troppo: sicuramente è meglio informare subito la popolazione ed è un bene per la società che vi siano più fonti di informazioni, ma ciò obbliga i singoli individui ad una maggiore maturità sociale e ad una più attenta capacità di analisi delle informazioni ricevute.

Anche perché, allora come oggi, i prezzi dei vaccini e delle sostanze medicamentose non rispondono alle regole di mercato, ma all’isterismo del momento. La volontà di festeggiare si manifesta tanto più intensa quanto maggiore è stata la tragedia. Anche dopo il termine della Grande Guerra, così come dopo la Seconda guerra mondiale (dove le prime attività a prendere corpo sono state le balere e le sale da ballo) le feste rappresentarono un incredibile possibilità di rimettere in contatto le persone, ma in periodo di pandemia rappresentano un grave pericolo. Le vittorie sportive e la volontà di tornare in aula rischiano di esprimere un genuino entusiasmo popolare, ma deve essere corroborato da azioni di management in grado di associare esigenze pratiche con tendenze sociali.

Anche le pubblicazioni scientifiche non erano e non sono una garanzia assoluta di veridicità, ma occorre spostare le risorse dallo scontro tra le diverse fazioni, per una ricerca sperimentale delle ipotesi sul campo. Anche le notizie false generano una necessità di ricerca e la loro confutazione rappresenta comunque, una strada per raggiungere nuove conoscenze e così il Covid-19, come la Spagnola, nonostante i disastri provocati, saranno stati utili per aver accelerato il progresso.




Posted on: 2021/09/10, by :