Storia della sanità, capitolo XIII:
nasce la medicina occidentale

di Emanuele Davide Ruffino
e Germana Zollesi |

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A lungo si è discusso se i pensatori greci abbiano rappresentato una frattura con il passato o una sistemazione delle conoscenze fino ad allora andatesi ad elaborare tra i diversi popoli del medio oriente e del mediterraneo. Sicuramente con la scuola crotoniate (secondo Erodoto la prima al mondo, secondi quelli di Cirene) e prima ancora con la scuola di Cnido la rottura con il passato fu evidente.

La scuola di Cnido si basava sull’omeostasi (isonomia) interna all’organismo per cui la malattia nasce dalla rottura dell’equilibrio e dal prevalere di uno solo di questi principi oltre che per l’azione di una molteplicità di fattori ambientali. Il riconoscimento esplicito dell’importanza dei fattori ambientali, quali cause esterne delle patologie, sancì il definitivo distacco della medicina scientifica dal mondo magico-religioso.

Dalle credenze religiose alla filosofia


Ciò non sottintende un medico contrapposto alla religione, semmai che per l’esercizio della professione occorre disporre di adeguate conoscenze basate su conoscenze empiriche e una benevola attenzione degli Dei: non a caso il giuramento di Ippocrate inizia con un’invocazione al dio. L’allontanamento del pensiero medico dalla religione fonda le sue radici nella filosofia della natura e l’affermazione del cosiddetto “medico vagante”, rappresentazione del medico-artigiano che imposta la sua pratica sull’esperienza acquisita sul campo spostandosi da città in città offrendo la sua professione all’abbisogna: un medico “laico” contrapposto al medico “sacerdote”. I pilastri della filosofia naturalistica sono stati individuati dalla scuola ionica di Mileto (quella che diede i natali a Talete) che cercarono di ritrovare nella natura l’origine della realtà: per la prima volta si tentò una spiegazione dei fenomeni all’interno della natura stessa, anziché ricondurre il tutto al soprannaturale, e come tale, inconoscibile. Su queste basi si fonda il sovvertimento delle conoscenze e la nascita della teoria fisiopatologica dello squilibrio dei quattro umori (sangue, flegma, bile gialla e bile nera) come causa di malattia, esplicitamente ricalcata sulla dottrina filosofica dei quattro elementi costitutivi del mondo (acqua, aria, terra, fuoco), abbozzata da Platone e sviluppata poi da Empedocle di Agrigento, che identifica nella aggregazione e disaggregazione degli elementi per forze contrapposte la causa dei fenomeni naturali e l’origine stessa delle cose. Ma ancor più rivoluzionaria fu il nuovo modo d’intendere l’interazione tra il medico e il suo paziente e, con essa, l’etica medica, come codice di comportamento autoimposto dal medico nei confronti del paziente.

L’importanza dell’esperienza greca


L’affermazione che la “sapienza è potenza” trova nell’antica Grecia uno dei più fulgidi esempi. Il sapere ha rappresentato in quella società un valore autonomo. E’, infatti, con lo spirito dei grandi pensatori greci che la ricerca scientifica acquisisce la metodicità dell’osservazione dei fatti. Il desiderio di scoprire e di spiegare la natura dei fenomeni, spinse alla ricerca della verità ed il confronto con la salute, cioè con gli equilibri che governano il corpo umano, sono certamente di maggiore immediatezza, rispetto ad altri altrettanto nobili studi. La medicina si presentò subito come una delle ricerche maggiormente ancorate alla realtà del quotidiano e per i filosofi medici comportò l’obbligo di stabilire un ordine alle varie funzioni del corpo umano, così come per il musico, intervenire, quando l’armonia veniva spezzata, o per l’architetto, dare equilibrio alle forme. La rottura con le credenze che attribuivano al soprannaturale anche le cause di un semplice raffreddore era ormai compiuto. Certamente le potenzialità terapeutiche e diagnostiche erano quelle che la cultura e la tecnica dell’epoca permetteva, ma l’osservazione minuziosa dei sintomi e delle cause diventa un imperativo per la classe medica. Ogni parte del corpo comincia così ad essere osservato ed esaminato, per ricavarne informazioni utili al processo diagnostico curativo: qualsiasi insolito dolore, il mutamento della temperatura o del colorito cominciano ad essere annotati e studiati con sistematicità. Non si pretende più di conoscere la patologia e la sua causa divina, ma di poterla diagnosticare, curare o perlomeno di evitare macroscopici errori nelle cure. La presenza del divino non esclude la ricerca della razionalità, anzi sembra quasi che questi due aspetti trovino un euritmico incontro nel momento in cui la medicina ricerca una soluzione deontologica che vede il divino nella natura: di conseguenza, ogni intervento eseguito nel rispetto delle leggi della natura viene eseguito anche nel rispetto del divino. È questo il tempo in cui Archimede scopre il “tempo” o più esattamente il modo per misurarlo. Con il suo orologio ad acqua, basato su un flusso d’acqua, reso costante da rubinetti e galleggianti, quest’invenzione permetteva di misurare il passare di dodici ore non più solo come consuetudine pratica ma come grandezza fisica. Senza questa invenzione non si sarebbe mai potuto giungere a misurare la pressione e un’infinità di altre analisi.

Il rispetto verso medici e pensatori


Non si può certo parlare di una medicina platonica, intesa nella sua eccezione popolare che porta ad immaginare una medicina perfetta nel mondo dell’Iperuranio, che i guaritori devono sforzarsi nel riportare nelle pratiche quotidiane, ma se tra natura e divino vi è una simbiosi, la natura e, di conseguenza, l’uomo, fa parte del divino e la sua cura diventa la più nobile delle arti e, per questo, si avvicina al divino. A favorire questa impostazione contribuì il grande rispetto concesso ai medici e, più in generale, ai pensatori. I sapienti (poeti, artisti, indovini e medici) godevano, infatti, di una speciale protezione divina che li guida e li indirizza nella conduzione delle loro professioni, mentre i mercanti e i contadini sono alla mercé del tempo e della materialità che non possono controllare ne, tanto meno governare. Il rispetto verso la classe medica, nell’antica Grecia, anche quando questa si stacca da quella sacerdotale, rimase dunque inalterato proprio grazie a questo alto patronato. Già ai tempi di Omero, la medicina aveva acquisito il rango di professione e molti medici laici avevano trovato impiego presso i palazzi dei signori o nelle Città, tanto da poter affermare che in Grecia si formò la prima corporazione. Nonostante questo riconoscimento, economico e sociale, i medici accettarono di poter sbagliare, “anzi vi è certezza, ma non lavorano in totale ignoranza” (così Solone nel VI secolo a.C.). Dai racconti omerici si evince, anche per l’arte medica dei greci, la duplice matrice, materiale ed etica, della medicina: la prima dedita soprattutto alle pratiche chirurgiche e poi tramite questa lo sviluppo dei primi studi sull’anatomia del corpo umano, la seconda maggiormente attenta alle patologie destabilizzanti l’equilibrio su cui si presumeva reggersi la salute dell’uomo. Inizialmente tutte le problematiche di carattere sanitario venivano riferite a Apollo, ma con l’acquisizione di nuove conoscenze, lo sviluppo delle tecniche e la trasformazione del santuario in un complesso specializzato per le cure, la medicina religiosa tralascia il mito di Apollo e cerca invece mediazione nelle divinità minori.

Il racconto mitologico al servizio della medicina


Nasce così la figura di Asclepio e, in seguito, quella dei figli Telesphoro, Podalirio e Macaone: quest’ultima figura nell’Iliade, rappresentato mentre cura Menelao (ferito da Pandaro) e, insieme a Podalirio, risanerà Filottete nella tragedia sofoclea. Asclepio, allievo del centauro Chirone, che secondo il rapporto degli abitanti di Epidauro, “imparò l’arte di guarire sia da Apollo sia da Chirone e divenne così abile nel maneggiare i ferri chirurgici e nel somministrare erbe benefiche, che fu onorato come padre della Medicina”. Il racconto mitologico vuole che Asclepio riceva in dono da Atena due fiale contenenti il sangue della Gorgone Medusa; con il sangue estratto dal lato sinistro della Gorgone, poteva dare morte istantanea, dal lato destro, il potere di resuscitare. Il mito aveva già proposto altri simboli bivalenti; tipico “il serpente guaritore”, elemento di rigenerazione per la proprietà di mutare pelle o di morte per le proprietà insite nel veleno, nonché il “Caduceo” raffigurato sulla coppa del governatore di Giudea del XXII a.C. con i due serpenti intrecciati, sono manifestazioni della bivalenza medica di ridare la vita o indurre la morte. Ma anche il vaso di Pandora, da cui uscirono tutte le patologie che colpirono gli uomini, liberò insieme la speranza di sopportare e curare il dolore, rendendo così possibile la sopravvivenza anche di fronte all’angoscia per le malattie e per la vecchiaia. Le stesse rappresentazioni di Asclepio lo raffiguravano spesso come un uomo seduto su un trono con in pugno un bastone e l’altra mano appoggiata sulla testa di un serpente, mentre un cane è accucciato ai suoi piedi.




Posted on: 2020/09/14, by :