Storia della sanità, capitolo XI: le applicazioni a tutto campo nell’antico Egitto

di Emanuele Davide Ruffino
e Germana Zollesi |

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Se la scienza dei medici egiziani non fosse, però, stata sufficiente, a loro volta gli Dei egiziani disponevano di un proprio know how che permetteva di approntare, direttamente in proprio, interventi terapeutici, così almeno sostenevano i sacerdoti. A loro era attribuita la possibilità di avere dalle divinità le informazioni sulle tecniche curative attuate dagli stessi Dei e vantare, di conseguenza, una legittimità ad interessarsi dei problemi relativi allo stato di salute dei comuni mortali. Se la cura era dettata dagli Dei, questa non poteva che essere esercitata da coloro che per essi intercedevano creando così un’esclusività nell’esercizio della professione.



Le richieste d’intervento a Horus…

Tecnicamente questo approccio prevedeva di scoprire quale demone causava le malattie e, poi, d’individuare una divinità in grado di contrastarla fornendo le conoscenze opportune. Ciò stabilito era lo stesso sacerdote che invocava il dio giusto o addirittura ne assumeva le vesti e ne imitava le azioni apostrofando violentemente la forza malefica ed invitandola ad allontanarsi. Una testimonianza ricorda come in caso di morsicatura di serpente si usava invocare Horus impersonificato in un falco ricavato da legno di edera, su cui venivano poste due piume sulla testa. Dopo avergli offerto pane birra e incenso, l’esorcista poneva la statuetta sulla testa del malcapitato appena morsicato e pronunciava le seguenti parole: “Fuggi via tu veleno, abbattiti al suolo. Horus ti ha scacciato, ti taglia fuori, ti sputa fuori, e tu non ti rialzi ma cadi. Tu sei debole e non forte, sei vigliacco e non combatti, se cieco e non vedi. Tu non alzi il viso. Sei rivolto indietro e non trovi la tua strada. Sei triste e non gioisci. Tu strisci e non sparisci e non ricompari. Così parla Horus, potente di magia” (papiro di Torino, 131, 1 – 8; stele di Metternich, 3 – 8).

Il prestigio della classe dei sacerdoti

Spesso il sacerdote parlava in nome proprio, ma quando doveva apostrofare un demone preferiva (o le scuole dell’epoca consigliavano vivamente) di farlo in nome di una divinità con frasi del tipo: “È Iside che dice” oppure “io sono re in questo suo nome misterioso” e avvalendosi di statue, amuleti, immagine e quant’altro che possedesse un potere magico derivante dall’essenza divina che in essa si presumeva dimorasse. Questi medici-sacerdoti (detti Sunu) fungevano, quindi, da agenti moderatori delle forze soprannaturali, in forza delle loro particolari prerogative e conoscenze. La classe dei sacerdoti disponeva di conseguenza di un notevole prestigio sociale e di un reale potere nel governo della società egiziana. L’accostarsi alla casta sacerdotale era quindi un’ambizione diffusa, ma il criterio di scelta avveniva normalmente per cooptazione a testimonianza dell’autonomia di cui disponeva la casta dei sacerdoti-medici. La possibilità d’istruire i cosiddetti ieroduli, giovani iniziati alla pratica della medicina pubblica (forse gli antenati degli infermieri a domicilio) era, infatti, un’esclusiva dei sacerdoti medici. Gli ieroduli erano spesso schiavi desiderosi di affrancarsi dal loro stato od oblati che volontariamente si ponevano sotto la guida dei sacerdoti per apprendere l’arte medica. Essi potevano rimanere per tutta la vita al servizio nei templi, oppure praticare alcuni degli insegnamenti appresi.

Alcune pratiche a disposizione di chiunque

All’interno dei templi esistevano le “case della vita” e le scuole sacerdotali volte a studiare le malattie incerte, cui le arti pratiche non riuscivano a porre alcun rimedio, ma per le quali si rendeva necessaria la magia e le arti esoteriche. Per giungere ad alti livelli di professionalità alcuni giovani iniziatici seguivano una particolare preparazione che poteva caratterizzarsi al punto che alcuni di loro non entravano poi nell’ordine sacerdotale, ma si interessavano esclusivamente di salute. Questa laicizzazione permise anche ai non addetti di acquisire perlomeno alcune delle pratiche e degli incantesimi da invocare in caso di episodi malattia. La pratica si diffuse a tal punto che anche le mamme, prime di mettere a letto i loro bambini potevano recitare formule sacre per tenere lontane le influenze maligne, particolarmente vivaci nelle ore notturne. In pratica, ciò che si pensava essere utile per curare una malattia poteva diventare patrimonio culturale a disposizione di chiunque fosse in grado di conoscerlo e di evocarlo.

Primi esempi di “sanità militare” sui campi di battaglia

Ma è nella gestione dei feriti sui campi di battaglia che trova massima applicazione la cultura medica egiziana con le sue conoscenze tecniche ed empiriche. Le condizioni dei feriti non permettevano di aspettare l’arrivo dei sacerdoti o l’invocazione degli dei, ma necessitavano di un intervento immediato. Battaglie furono combattute anche da altri eserciti, ma la sopravvivenza del regno degli antichi egizi permise di approfondire una specializzazione particolare nel curare direttamente sul campo. Era questa una scienza eminentemente empirica che acquisì particolare importanza e prestigio per la sua funzione di salvare i difensori del regno. Questo riconoscimento permise all’arte chirurgica maturata di confrontarsi e competere in termini di prestigio sociale anche con la medicina dei Faraoni. Anche se a dire il vero, per gli Egizi, oltre ad una qualificata attività di tipo ortopedico, la chirurgia si sviluppa soprattutto nell’arte settoria per migliorare i processi di imbalsamazione e mummificazione. Ed è tramite questi processi si accrescono le conoscenze sul corpo umano: si ricordi che un processo di imbalsamazione poteva durare centinaia di giorni (per la regina Meresankh III, una delle mogli di Chefren, Faraone della IV Dinastia, il processo durò 272 giorni).

Gli esordi della moderna “medicina del lavoro”

Le forme più evolute della medicina venivano praticate nei templi (a Dendera ad esempio si praticava l’incubazione, ma si poteva esercitare (ed era pratica piuttosto comune) anche presso il domicilio dei pazienti. Numerosi sono i reperti delle pratiche chirurgiche ritrovate che presentano un panorama piuttosto ampio di tipologia di intervento. Unica eccezione è rappresentato il numero piuttosto modesto, solo sei testimonianze, di trapanazione cranica, anche se distribuite in più epoche storiche: dal più antico ritrovamento di Sesebi (Sudan), datato al tempo della XVIII o XIX Dinastia (circa il 1200 a.C.) a quello di Saqqara (Egitto) datato XXV Dinastia (600 a.C.) che presenta una trapanazione bilaterale. Stupisce la scarsità di reperti di trapanazione perché in paesi limitrofi, influenzati dalla cultura egizia, quali Libia e Algeria ed Etisia (presso i Tibu del Tibesti), si sono ritrovate preziose testimonianze di trapanazione del cranio. L’empirismo degli antichi egizi si constata anche per l’elaborazione, vuoi per pietas, vuoi per conservare il patrimonio costituito da esperte maestranze, di una vera e propria medicina di fabbrica, con il pronto soccorso e il controllo sulla salute degli operai che si assentavano dal lavoro per infortunio o per malattia (lo stesso problema su cui si dibatte oggi l’INPS!).

Dalla palpazione all’uroscopia: la preparazione dei purganti

Nell’Odissea, infine, si ricorda come sulle sponde del Nilo si trovavano “moltissimi farmaci, molti buoni, ma anche molti mortali, e per ognuno vi è un medico esperto al di sopra di tutti gli uomini”. L’esperienza riconosciuta essenziale per procedere efficacemente nelle cure, ha permesso un processo di super specializzazione per cui anche i greci riconoscevano come nelle singole arti di cura, in Egitto si trovasse un medico più esperto degli altri. Le pratiche più usate sono state la palpazione, l’ispezione, l’auscultazione e l’uroscopia. La pratica di gran lunga più utilizzata sicuramente quella dei purganti: secondo la fisiologia egiziana, attribuiva al cuore il compito di recepire l’aria proveniente dal naso e dalle orecchie e dopo averla trasporta per il corpo attraverso un sistema diffuso di canali (metu), il tutto si ricongiungeva nell’ano. Questa visione portava ad interpretare la malattia come un inceppamento del sistema dei metu da parte di entità morbigene (ukhedu), da rimuovere. Innumerevoli furono i lassativi messi a punto per ricostituire un equilibrio interno.




Posted on: 2020/08/04, by :