Storia della sanità, capitolo XXXVII: la trasmissione del sapere nei monasteri

di Emanuele Davide Ruffino
e Germana Zollesi |

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Spesso il trasferimento delle conoscenze assimilate, costituiva il testamento del monaco che, così facendo, permetteva di trasferire il sapere alla generazione successiva. Il ruolo del “monachus infirmarius” ossia dei monaci farmacologi era particolarmente ambito e, una volta raggiunti, bisogna conservarseli con la dovuta attenzione.

Nell’attesa del testamento, è molto probabile che tanti monaci s’ingegnarono nell’osservare le piante raccolte e le modalità di trattamento adottate dai loro confratelli. L’osservazione dei monaci anziani divenne la base per il processo di crescita dei novizi: ai più giovani veniva affidata la raccolta e poi la cura degli orti, tant’è che l’orto prese spesso il nome di “Giardino dei novizi”, poiché la cura dell’orto venne assegnata ai giovani aspiranti alla vita monacale.

Nei conventi nascono le prime “farmacie”

Solo dopo lunghi anni passati a zappettare la terra si poteva accedere ai locali di preparazione e di conservazione dei medicinali. Il problema, infatti, non era solo quello di preparare, ma anche quello di conservare i preparati: allo scopo si predisposero degli “armarium pigmentariorum”. Originariamente erano degli armadietti, chiusi in modo tale da non lasciar filtrare troppa aria ma, soprattutto, troppa luce, al fine di mantenere inalterate le proprietà medicamentose delle erbe. Le richieste che provenivano ai conventi obbligarono presto a trasformare gli armadi in locali che rispettassero però le stesse caratteristiche di salubrità.

Poca luce ma buona aerazione e soprattutto si cominciarono a predisporre ripari di vimini, recipienti, anfore e rudimentali involucri di vetro, di legno o, quando disponibili, di metallo. Inizialmente si trattava di offrire un servizio all’infermeria dell’abbazia: quando poi si passò a confezionare preparati da asporto, si può affermare che fu inventata la prima farmacia moderna. Dalle campagne circostanti e poi dalle città cominciò a pervenire una notevole domanda di medicinali e soprattutto dei liquori preparati dai frati, alcuni ancora prodotti oggigiorno a testimonianza di una notevole ricercatezza dei gusti e dell’efficacia dei preparati.

La formazione della letteratura farmaceutica

Per l’importanza assunta e volumi raggiunti, le suddette attività spesso trovarono posto negli spazi maggiormente accessibili, cioè in prossimità dell’ingresso delle abbazie (anticipando di secoli le tecniche di vendita adottate nei supermercati). L’afflusso di malati portò anche a dotarsi di locali definiti come domus medicorum, cioè di un’infermeria sistemata normalmente al Sol Levante (cioè verso il sorgere della vita) per assistere i visitatori. Ovviamente il farmaco più ricercato era la “chimera dell’elisir di lunga vita”, una panacea per tutti i mali, che convogliò le energie migliori a cimentarsi nell’elaborare nuove preparati e nuovi composti chimici.

Sorse così una vasta letteratura farmaceutica: tra i testi più famosi, il “compendium aromatorium” di Saldino Ferro da Ascoli, pubblicato a metà del XV secolo, il “conciliator differentiarum philosophorum et precipue medicorum” di Pietro d’Abano (Mantova 1472), il ricettario di Simone da Genova (1474) e soprattutto il ricettario fiorentino: la prima vera farmacopea moderna. Con Paracelso ha poi inizio anche l’epoca della chimica farmaceutica.




Posted on: 2021/11/19, by :