Suicidio assistito: il dilemma etico e morale di una proposta di legge

di Chiara Laura Riccardo|

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Nelle more dell’elezione del Presidente della Repubblica e delle nuove norme di contenimento della pandemia con lo sviluppo della variante Omicron, la proposta di legge sulla “morte volontaria medicalmente assistita” (discussa nel dicembre scorsa, su cui il Parlamento è chiamato ad esprimersi a febbraio) è ritornato nella penombra. Uno spazio temporale che ha permesso di raffreddare la tensione polemica e le forti contrapposizioni che si sono determinate nel Paese. Un recente articolo on line de La Civiltà Cattolica,1 estremamente articolato nella sua ricchezza informativa sui piano giuridico, ci offre lo spunto per ritornare sull’argomento con un intervento di Chiara Laura Riccardo.

Il 9 dicembre 2021 è stata licenziata nelle Commissioni Giustizia e Affari Sociali della Camera la proposta di legge “Disposizioni in materia di morte volontaria medicalmente assistita”. Questa proposta di legge sulla “morte volontaria medicalmente assistita”, più comunemente chiamata “suicidio assistito”, è il risultato dell’accorpamento di più proposte. Un elemento di per sé che anticipa un comune sentire: i tempi di discussione non saranno brevi perché il tema del “fine vita” e del “suicidio assistito” sono divisivi sul piano sociale, ma si prestano oltremodo alla più classica e abusata strumentale divisione politica. Ma il tema, che rientra nella bioetica, ci pone di fronte ad un dilemma etico e morale non marginale: da una parte, infatti, vi ritroviamo il rispetto per l’autonomia e la libertà della persona; dall’altra, per contrasto soltanto apparente, abbiamo vigili la dignità e il valore della vita umana.

Il tema dunque non può non trascinarci in una riflessione complessa e, per certi versi, anche problematica. Se guardiamo alla libertà dell’essere umano, il suicidio può essere visto come una via che l’uomo può scegliere per trasformare la morte da una casualità ad una scelta, come sostiene lo psicanalista Jemes Hillman, ma al contempo, se siamo, come qualcuno sosteneva, degli “animali sociali”, oltre che ad avere un destino individuale, l’uomo fa parte anche di una collettività e dunque, nella decisione di porre fine alla propria vita, deve prendere in considerazione anche il “mondo” di chi lo circonda.

Gli obiettivi dell’azione legislativa

La proposta di legge “disciplina la facoltà della persona affetta da una patologia irreversibile e con prognosi infausta o da una condizione clinica irreversibile di richiedere assistenza medica, al fine di porre fine volontariamente e autonomamente alla propria vita, alle condizioni, nei limiti e con i presupposti previsti dalla presente legge e nel rispetto dei princìpi della Costituzione, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea”. Con morte volontaria medicalmente assistita si intende “il decesso cagionato da un atto autonomo con il quale, in esito al percorso disciplinato dalle norme della presente legge, si pone fine alla propria vita in modo volontario, dignitoso e consapevole, con il supporto e sotto il controllo del Servizio sanitario nazionale. Tale atto deve essere il risultato di una volontà attuale, libera e consapevole di un soggetto pienamente capace di intendere e di volere”.

Per fare ciò le strutture del Servizio Sanitario Nazionale devono operare nel “rispetto della tutela della dignità e dell’autonomia del malato, della tutela della qualità della vita fino al suo termine, fornendo adeguato sostegno sanitario, psicologico e socio assistenziale alla persona malata e alla famiglia”. La richiesta di morte volontaria medicalmente assistita può essere effettuata dalla persona che, al momento della richiesta, “abbia raggiunto la maggiore età, sia capace di intendere e di volere e di prendere decisioni libere, attuali e consapevoli, adeguatamente informata, e che sia stata previamente coinvolta in un percorso di cure palliative al fine di alleviare il suo stato di sofferenza e le abbia esplicitamente rifiutate”.

La persona deve altresì trovarsi nelle seguenti concomitanti condizioni: “essere affetta da una patologia attestata dal medico curante e dal medico specialista che la ha in cura come irreversibile e con prognosi infausta, oppure essere portatrice di una condizione clinica irreversibile, che cagioni sofferenze fisiche e psicologiche che la persona stessa trova assolutamente intollerabili; essere tenuta in vita da trattamenti sanitari di sostegno vitale, la cui interruzione provocherebbe il decesso del paziente”.

La richiesta di accesso alla morte medicalmente assistita deve essere “informata, consapevole, libera ed esplicita e deve essere fatta per iscritto e nelle forme dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata”. Nel caso in cui le condizioni della persona non consentano queste modalità, la richiesta può essere “espressa e documentata con videoregistrazione o qualunque altro dispositivo idoneo che gli consenta di comunicare e manifestare inequivocabilmente la propria volontà, alla presenza di due testimoni”.

Successivamente alla formulazione della richiesta, il medico deve illustrare al paziente le “conseguenze della sua scelta e le possibili alternative” (promuovendo anche azioni di sostegno psicologico). Il medico deve poi redigere un “rapporto dettagliato e documentato sulle condizioni cliniche, psicologiche, sociali e familiari del richiedente e sulle motivazioni della sua scelta”, e inoltrarlo al Comitato di valutazione clinica di competenza dell’Azienda Sanitaria Locale che si esprimerà sulla richiesta del paziente.

Da specificare che, in caso di parere negativo, il richiedente potrà comunque fare ricorso alla giustizia. Il decesso a seguito di morte volontaria medicalmente assistita è equiparato al decesso per cause naturali a tutti gli effetti di legge ed il personale sanitario non è tenuto a prendere parte alle procedure per l’assistenza alla morte volontaria medicalmente assistita quando sollevi obiezione di coscienza con preventiva dichiarazione.

Morte volontaria assistita ed eutanasia: differenze e diffusione nel mondo.

La proposta di legge “Disposizioni in materia di morte volontaria medicalmente assistita” sembra marcare e definire con più chiarezza il confine tra suicidio assistito ed eutanasia, nel tempo spesso confusi tra loro. La Commissione di etica clinica dell’Ente Ospedaliero Cantonale definisce l’eutanasia come “l’azione volontaria per porre fine alla vita del paziente da parte di un medico e ciò per arrestare sofferenze insopportabili ed insensate e può avvenire solo su richiesta esplicita del paziente” e dove è il medico che, con azione diretta, somministra il farmaco letale al paziente.

Il suicidio assistito è invece l’atto del porre fine consapevolmente alla propria vita mediante l’auto-somministrazione di una dose letale di farmaci con l’assistenza di un medico (la persona dopo aver ingerito il farmaco, impiega tra i due e i cinque minuti ad addormentarsi, per poi scivolare in un coma profondo seguito poi dalla morte). Dunque appare chiaro che, mentre l’eutanasia non necessita della partecipazione attiva della persona che ne fa richiesta, il suicidio assistito sì, perché prevede che il soggetto assuma in autonomia il farmaco letale.

Se guardiamo alla diffusione di queste pratiche in Europa e nel mondo, il primo paese a disciplinare il suicidio assistito è stato, nel 1942, la Svizzera (dove numerose sono le realtà associative che si occupano di seguire i pazienti nel percorso di accompagnamento al suicidio assistito, anche provenienti dall’estero, il cosiddetto “suicide tourism”). Il suicidio assistito è consentito anche in Giappone, in Germania, in Canada e negli Stati Uniti (Montana, Oregon, Washington, Vermont, California, Colorado, District of Columbia, Hawaii, Maine e New Jersey), mentre l’eutanasia è legalizzata nei Paesi Bassi (il primo paese a legalizzarla nel 2002), in Belgio (dal 2002), in Lussemburgo (dal 2009), in Spagna (dal 2021), in Colombia (dal 2015) e in Oceania negli stati di Victoria (dal 2019) e Western Australia (dal 2021). Interessante anche segnalare che, invece, secondo il codice penale serbo, sia l’eutanasia che il suicidio assistito rappresentano degli “atti criminali”.

Se guardiamo ai dati relativi alla diffusione di queste pratiche, pubblicati dalla Confederazione Svizzera, nel 2020 quasi 1.300 persone hanno scelto di fare ricorso al suicidio assistito tramite le due principali organizzazioni che offrono questo servizio sul territorio (i dati annui sono in costante aumento e sono passati dai 187 del 2003 ai 1.214 del 2019). Tra le condizioni patologiche più ricorrenti figurano per la maggioranza i tumori con, a seguire, malattie neurodegenerative, cardiovascolari, dell’apparato locomotore e altre malattie come dolori cronici, demenza e depressione. Per quanto attiene l’età, i dati mostrano che la maggioranza dei suicidi assistiti in Svizzera avviene tra gli ultra-sessantacinquenni.

L’opinione degli italiani

In Italia, dalla storia di Piergiorgio Welby ad Eluana Englaro, da Terry Schiavo a Dj Fabo, il tema dell’eutanasia prima e del suicidio assistito poi, divide gli italiani tra chi è favorevole e chi è contrario. Da un iniziale deserto legislativo, oggi iniziano a vedersi delle possibilità di cambiamento. Uno dei recenti sondaggi dell’Eurispes mostra come sei italiani su dieci sono favorevoli all’eutanasia (59,6%), oltre sette su dieci al testamento biologico (71,6%) e tre su dieci al suicidio assistito (29,9%).

Il trend percentuale sembra modificarsi, spesso, in occasione dei casi posti all’attenzione mediatica che vanno a sollecitare la sensibilità degli italiani; proprio nel 2007 infatti, dopo le storie di Terry Schiavo e Piergiorgio Welby, si era registrato il picco più alto di favorevoli all’eutanasia (68%), per poi diminuire nel 2012 al 50%. Sul tema del suicidio assistito, il monitoraggio, che parte dal 2012, evidenzia nel 2013 il picco più alto delle dichiarazioni favorevoli (36%) e nel 2015 il dato più basso (25%).

Il “caso” che recentemente ha riaperto il dibattito è quello di Mario, uomo tetraplegico, ad aver ottenuto il via libera legale al suicidio medicalmente assistito in Italia, secondo l’iter stabilito dalla sentenza Cappato-Antoniani della Corte Costituzionale, ma che oggi ha denunciato l’Azienda Sanitaria Unica Regionale delle Marche e il Comitato Etico della stessa Regione per il reato di “tortura” a seguito del ritardo nelle necessarie verifiche sul farmaco letale da utilizzare e le relative modalità di somministrazione. Quadro, questo, che nella sua drammaticità, fotografa forse la difficoltà etica e morale dell’Italia a “collocarsi” in riferimento a questa tematica.

Interrogativi sul concetto di patologia irreversibile

Nel 2019 in Olanda, una giovane ragazza diciassettenne, dopo anni di sofferenze psichiche seguite a diverse violenze sessuali subite a partire dall’età di 11 anni, ha richiesto il suicidio assistito presso una clinica specializzata, motivando sui social la sua scelta con l’affermazione “respiro, ma non sono più viva”. Nel 2005 l’Olanda, uno tra i primi paesi europei ad approvare una legge sul tema dell’eutanasia diretta e del suicidio assistito, ha licenziato il “Protocollo di Groningen” sull’eutanasia infantile, il quale prevede di estendere la possibilità di ricorrere all’eutanasia anche ai bambini sotto i 12 anni, fino all’età neonatale, e che la morte può essere accordata, dopo verifica certificativa da parte di un medico, a partire dai 12 anni di età (fino ai 16 anni è necessario il consenso dei genitori, mentre i diciassettenni sono liberi di scegliere autonomamente).

Di fatto qui, se guardiamo alla patologia in oggetto, si sta parlando di depressione, anch’essa inserita tra le malattie che rendono possibile la richiesta di suicidio assistito. E’ bene porsi, in questi casi però, degli interrogativi sul concetto di patologia irreversibile, di sofferenza e di inguaribilità. La depressione è scientificamente riconosciuta come una malattia curabile e, nelle sue forme più gravi, può anche compromettere la capacità del paziente di esprimere un consenso valido per un atto medico. Inoltre, le malattie croniche invalidanti, spesso, con il loro progredire possono presentare correlati depressivi importanti che inevitabilmente influenzano negativamente la capacità della persona di esprimere un consenso valido rispetto ad un atto sanitario.

E forse da Giovanni Paolo II che, già nel 1995 nella lettera enciclica Evangelium Vitae, scriveva della sofferenza, ci arriva un monito: “La domanda che sgorga dal cuore dell’uomo nel confronto supremo con la sofferenza e la morte, specialmente quando è tentato di ripiegarsi nella disperazione e quasi di annientarsi in essa, è soprattutto domanda di compagnia, di solidarietà e di sostegno nella prova. È richiesta di aiuto per continuare a sperare, quando tutte le speranze umane vengono meno”. Da un lato dunque i valori illuministici dell’autonomia e dell’autodeterminazione dell’uomo, dall’altro i valori cristiani che vedono la vita come un dono di cui l’uomo non può disporre liberamente e, al centro, la “nuova volontà” ed il tentativo di conciliare gli “estremi”. Da qui in avanti, di tutto questo, ne osserveremo le evoluzioni umane, etiche e legislative.

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