Sulla vita e sulla morte
di Emanuele Davide Ruffino e Germana Zollesi |
| Ai miracoli non ci crede più nessuno, se non qualche fattucchiera che con i suoi intrugli continua ad arrotondare il suo conto corrente.
Sulla vita e sulla morte “nella e della” nostra società dobbiamo invece confrontarci tutti i giorni. In passato sull’argomento filosofi di diversa estrazione si sono cimentati alacremente, perché era la società stessa a chiedere continuamente spiegazioni. Quando a causare la morte era una fatto traumatico la spiegazione sorgeva spontanea, quando invece era un fatto inspiegabile allora la fantasia delle diverse società dava il suo meglio.
Il tentativo empirico di fornire elementi utili maggiormente rappresentativi dell’evoluzione del problema e l’affermazione delle componenti attualmente dominanti non si può ricondurre a una semplice elencazione di fatti, ma ad un’analisi interpretativa che spieghi integralmente i fenomeni in essere. Fin dall’origine delle prime civiltà, l’uomo ricercò di mettere a punto pratiche sociali finalizzate alla cura delle malattie e al mantenimento di accettabili situazioni di vita, specie in corrispondenza degli eventi critici del cosiddetto ciclo vitale (in primis, la nascita e la morte).
A dare concretizzazione a questo discorso è stato il passaggio da una vita nomade (caratteristica tipica delle popolazioni dedite alla caccia e alla pastorizia, inevitabilmente tese a rincorrere la selvaggina e i campi da pascolare) ad una vita sedentaria, stanziale, circa 10 mila anni fa. Nella fase del nomadismo il malato era un impiccio e la morte toglieva quasi l’impiccio. Le comunità sedentarie invece potevano osservare la morte da vicino e provare a darne spiegazione.
La morte, prima che un oggetto di ricerca scientifica rappresentò una minaccia costante subita dagli individui e dalla società. Non si può infatti dimenticare gli innumerevoli casi dove gli ammalati venivano crudelmente allontanati dal gruppo perché considerati inutili o pericolosi, in quanto portatori di morte e disgrazie, attraverso umori, miasmi e spiriti maligni. I lebbrosari, citati anche nelle Sacre scritture, erano luoghi adibiti a ricevere i soggetti espulsi dai gruppi sociali, obbligandoli a vivere in aree ghettizzate, in compagnia spesso di delinquenti che avevano perso i diritti civili. Da sempre la prima reazione dell’uomo è quella di tentare di eliminare ciò che considera dannoso, ammalato o delinquente che sia. Gli studi e l’analisi dei fenomeni possono sempre essere rimandati! Atteggiamento ancora presente nella nostra società.
Per i primi esseri umani, doveva risultare piuttosto complicato accettare l’evidenza della morte. La mancanza di conoscenze scientifiche portava spesso a ricondurre il tutto a un aggressore maligno, esterno dal mondo reale. A questo “sconosciuto” si contrapponeva la fiducia che l’uomo sofferente poteva riporre nel Suo guaritore e, indirettamente e solo negli ultimi tempi, nel sistema, cioè nell’articolazione organizzativa chiamata ad assicurare appositi servizi e controllare la loro validità. Se c’è la domanda, l’offerta non tarda ad organizzarsi, indipendentemente dall’efficacia delle soluzioni proposte e se la domanda è quella dell’immortalità, l’offerta si organizza. Crioibernazioni, farmaci miracolosi, le piante della giovinezza…
Diversa è però la visibilità e la comprensione del livello individuale e del livello sociale: per l’individuo l’illusione dell’immortalità aiuta ad affrontare il quotidiano. Più complessa e articolata è invece la percezione del sistema predisposto a gestire il fenomeno. Dalla morte non si può sfuggire ma si può sfuggire dalla necessità di parlarne.
Questa difficoltà fa spesso apparire il sistema indifferente se non ostile alle necessità del singolo, dove le esigenze dell’organizzazione paiono quasi in contrasto con le aspirazioni del singolo. Anzi sembra quasi che a ogni progresso registrato, questa distanza tenda ulteriormente a crescere.
L’uomo è mistero e non può essere ricondotto a semplici automatismi e meccanicismi. È la natura trascendente dell’essere umano che obbliga a confrontarsi con il suo essere complessivamente considerato. Nel corso della storia si vanno così ad elaborare diversi percorsi per approcciarsi alla morte, riconducibili in prima approssimazione, ai seguenti approcci:
- Il sacro: in cui la morte dipende da un Dio che ne detiene le fortune e, di conseguenza, a dettarne le fortune era la benevolenza del Dio stesso;
- Il magico: dove la morte era dominio di un mondo misterioso e per cui bisognava rifarsi a rituali in grado di governare le forze sconosciute;
- Il razionale, basato su un approccio conoscitivo dove le malattie è la conseguenza di cause naturali e di interconnessioni con l’ambiente fisico;
- Lo scientifico, per cui la morte è un fenomeno naturale e oggettivo da osservare come qualsiasi altro fenomeno.
Sono trascorsi millenni da quando il primo uomo si è chiesto cos’è la morte, ma ancora oggi tranne che il desiderio di rinviarla non è che abbiamo fatto molti progressi ed allora ce la prendiamo con chi non riesce ad evitarla, magari andando a malmenare i medici e gli infermieri di un reparto ospedaliero, colpevolizzando gli stili di vita non accorti, la società che non previene le possibili cause o con la fattucchiera che ci aveva predetto una vita lunga! Di qualcuno deve pur essere la colpa se si continua a morire.
Posted on: 2019/10/27, by : admin
Il tentativo empirico di fornire elementi utili maggiormente rappresentativi dell’evoluzione del problema e l’affermazione delle componenti attualmente dominanti non si può ricondurre a una semplice elencazione di fatti, ma ad un’analisi interpretativa che spieghi integralmente i fenomeni in essere. Fin dall’origine delle prime civiltà, l’uomo ricercò di mettere a punto pratiche sociali finalizzate alla cura delle malattie e al mantenimento di accettabili situazioni di vita, specie in corrispondenza degli eventi critici del cosiddetto ciclo vitale (in primis, la nascita e la morte).
A dare concretizzazione a questo discorso è stato il passaggio da una vita nomade (caratteristica tipica delle popolazioni dedite alla caccia e alla pastorizia, inevitabilmente tese a rincorrere la selvaggina e i campi da pascolare) ad una vita sedentaria, stanziale, circa 10 mila anni fa. Nella fase del nomadismo il malato era un impiccio e la morte toglieva quasi l’impiccio. Le comunità sedentarie invece potevano osservare la morte da vicino e provare a darne spiegazione.
La morte, prima che un oggetto di ricerca scientifica rappresentò una minaccia costante subita dagli individui e dalla società. Non si può infatti dimenticare gli innumerevoli casi dove gli ammalati venivano crudelmente allontanati dal gruppo perché considerati inutili o pericolosi, in quanto portatori di morte e disgrazie, attraverso umori, miasmi e spiriti maligni. I lebbrosari, citati anche nelle Sacre scritture, erano luoghi adibiti a ricevere i soggetti espulsi dai gruppi sociali, obbligandoli a vivere in aree ghettizzate, in compagnia spesso di delinquenti che avevano perso i diritti civili. Da sempre la prima reazione dell’uomo è quella di tentare di eliminare ciò che considera dannoso, ammalato o delinquente che sia. Gli studi e l’analisi dei fenomeni possono sempre essere rimandati! Atteggiamento ancora presente nella nostra società.
Per i primi esseri umani, doveva risultare piuttosto complicato accettare l’evidenza della morte. La mancanza di conoscenze scientifiche portava spesso a ricondurre il tutto a un aggressore maligno, esterno dal mondo reale. A questo “sconosciuto” si contrapponeva la fiducia che l’uomo sofferente poteva riporre nel Suo guaritore e, indirettamente e solo negli ultimi tempi, nel sistema, cioè nell’articolazione organizzativa chiamata ad assicurare appositi servizi e controllare la loro validità. Se c’è la domanda, l’offerta non tarda ad organizzarsi, indipendentemente dall’efficacia delle soluzioni proposte e se la domanda è quella dell’immortalità, l’offerta si organizza. Crioibernazioni, farmaci miracolosi, le piante della giovinezza…
Diversa è però la visibilità e la comprensione del livello individuale e del livello sociale: per l’individuo l’illusione dell’immortalità aiuta ad affrontare il quotidiano. Più complessa e articolata è invece la percezione del sistema predisposto a gestire il fenomeno. Dalla morte non si può sfuggire ma si può sfuggire dalla necessità di parlarne.
Questa difficoltà fa spesso apparire il sistema indifferente se non ostile alle necessità del singolo, dove le esigenze dell’organizzazione paiono quasi in contrasto con le aspirazioni del singolo. Anzi sembra quasi che a ogni progresso registrato, questa distanza tenda ulteriormente a crescere.
L’uomo è mistero e non può essere ricondotto a semplici automatismi e meccanicismi. È la natura trascendente dell’essere umano che obbliga a confrontarsi con il suo essere complessivamente considerato. Nel corso della storia si vanno così ad elaborare diversi percorsi per approcciarsi alla morte, riconducibili in prima approssimazione, ai seguenti approcci:
- Il sacro: in cui la morte dipende da un Dio che ne detiene le fortune e, di conseguenza, a dettarne le fortune era la benevolenza del Dio stesso;
- Il magico: dove la morte era dominio di un mondo misterioso e per cui bisognava rifarsi a rituali in grado di governare le forze sconosciute;
- Il razionale, basato su un approccio conoscitivo dove le malattie è la conseguenza di cause naturali e di interconnessioni con l’ambiente fisico;
- Lo scientifico, per cui la morte è un fenomeno naturale e oggettivo da osservare come qualsiasi altro fenomeno.
Sono trascorsi millenni da quando il primo uomo si è chiesto cos’è la morte, ma ancora oggi tranne che il desiderio di rinviarla non è che abbiamo fatto molti progressi ed allora ce la prendiamo con chi non riesce ad evitarla, magari andando a malmenare i medici e gli infermieri di un reparto ospedaliero, colpevolizzando gli stili di vita non accorti, la società che non previene le possibili cause o con la fattucchiera che ci aveva predetto una vita lunga! Di qualcuno deve pur essere la colpa se si continua a morire.
Posted on: 2019/10/27, by : admin