Talebani e Afghanistan: la pericolosa passività dell’Occidente
di Michele Ruggiero |
|L’affermazione del presidente statunitense Joe Biden è inequivocabile: il Paese, l’Afghanistan, “deve difendersi da solo”. Ma, se è noto da chi deve difendersi, come lo possa fare rimane un’incognita che non si risolve con la prescrizione di Biden in contrasto visibile con i dati di realtà. Gli insorti talebani, ritornati di prepotenza primattori sullo scacchiere dell’Asia centrale non appena le forze della coalizione Nato hanno abbandonato lo stesso Paese che oggi dovrebbe essere in grado di difendersi da solo, avanzano verso Kabul ad una velocità doppia di quella con cui dall’inizio del 1945 l’esercito sovietico del maresciallo Georgij Zukov arrivò a Berlino e vi issò la bandiera rossa sul Reichstag nel maggio dello stesso anno. Il che fa apparire credibile l’ingresso nella capitale afghana entro tre mesi (secondo gli osservatori internazionali), dacché è meno credibile equiparare la forza dell’esercito governativo alla capacità di resistenza della Wehrmacht tedesca.
I primi a comprenderlo sono gli alti comandi e i militari della coalizione, italiani e non, che hanno svolto negli ultimi decenni la loro missione nelle basi afghane. I primi che sul campo hanno verificato che l’Afghanistan non è in grado si difendersi per una ragione elementare: non è un Paese e non lo sarà mai. Non lo è etnicamente e culturalmente, non lo è sotto il profilo religioso e per numero di lingue parlate. Lo Stato è percepito dai suoi cittadini più come un insieme di cocci di un vaso incollati dal vinavil, che come un’entità politica e amministrativa reale e concreta, con la capacità di soddisfarne almeno i bisogni primari. Infatti, è uno dei Paesi meno sviluppati che siedono all’Onu con un tasso di alfabetizzazione pari a un abitante su quattro, privo di un sistema sanitario adeguato per i suoi 38 milioni di abitanti, un decimo dei quali risiede a Kabul. Fattori negativi che s’inscrivono in una cornice di carenze più che spiegabile per chi si ritrova dal 1973, dal colpo di stato di Mohammed Daud Khan che pose fine alla monarchia di Mohammed Zahir Shah, in una condizione perenne di tensione, violenza e guerra.
Dall’antichità all’età contemporanea, l’Afghanistan è stato utilizzato per la sua posizione strategica e l’Occidente, fin dai tempi dell’Impero Britannico, non ha esitato ad occuparlo o mantenerlo sotto la sua influenza anche a costo di pedaggi elevati in termini di risorse economiche, vite umane e anche di orgoglio nazionale ferito. Non ultima, l’Unione Sovietica che all’Afghanistan deve una parte della sua destabilizzazione e dissoluzione principiate con l’invasione del 1979. La sconfitta dell’Armata Rossa è la cartina di tornasole di come la storia si ripeta anche sotto forma di tragedia: una società feudale che sconfigge un impero. Così come accadde nel Basso medioevo contrassegnato in Italia dall’età dei Comuni, quando nel 1176 la Lega Lombarda sconfisse l’imperatore Barbarossa a Legnano. Ma le vittorie possono rivelarsi anche potenti boomerang: all’Italia, per esempio, occorsero altri sette secoli per raggiungere l’unità nazionale.
Dunque, accertata l’impossibilità che il Paese asiatico possa “difendersi da solo”, non sarebbe sacrilego che l’Unione Europea provi a dire la sua, far sentire la sua voce in sede Nato e scrollarsi di dosso la tutela americana che oggi è soltanto un comodo alibi per l’inazione. Per fare ciò Bruxelles dovrebbe assumere un comportamento adulto, meno compromissorio con le dichiarazioni di Biden, consapevole di ciò che accadrà presto in Afghanistan (film a color rosso sangue già visto anni fa) con gli inevitabili riflessi di pressioni alle frontiere, crisi umanitarie e allarme terrorismo nei paesi europei, a meno di considerare i talebani “nuovi garanti e controllori” del jihad islamico contro l’Occidente. L’urgenza ha motivazioni anche strettamente politiche per l’inevitabile assestamento dell’Unione Europea a trazione franco-tedesca con l’addio al Cancellierato di Angela Markel e a causa delle difficoltà interne che attraversa l’inquilino dell’Eliseo Emmanuel Macron, di cui potrebbero approfittare il leader ungherese Viktor Orban e il gruppo di Visegrad.
Ma non è tutto. Occorre riconsiderare il ruolo di Cina, Russia e Turchia1, che si accreditano (con discrezione) a turno o in “combinata speciale” come gli interlocutori o partners ideali per offrire un futuro all’Afghanistan, mentre il “nemico numero uno” dell’America, l’Iran2, confida che il rompicapo afghano partorisca maggiore instabilità ai confini, ai valichi controllati dai talebani, per innescare un nuovo mix esplosivo nell’area che gli Usa non sarebbero in grado di gestire (come in Iraq), con conseguente perdita di autorevolezza e influenza. In altri termini, una débâcle politica e culturale per l’intero Occidente che vedrebbe assottigliarsi pericolosamente i suoi margini di leadership mondiale. Esattamente ciò che si prefigurava Osama bin Laden dopo l’11 settembre con l’attentato alle Torri gemelle di New York.
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I primi a comprenderlo sono gli alti comandi e i militari della coalizione, italiani e non, che hanno svolto negli ultimi decenni la loro missione nelle basi afghane. I primi che sul campo hanno verificato che l’Afghanistan non è in grado si difendersi per una ragione elementare: non è un Paese e non lo sarà mai. Non lo è etnicamente e culturalmente, non lo è sotto il profilo religioso e per numero di lingue parlate. Lo Stato è percepito dai suoi cittadini più come un insieme di cocci di un vaso incollati dal vinavil, che come un’entità politica e amministrativa reale e concreta, con la capacità di soddisfarne almeno i bisogni primari. Infatti, è uno dei Paesi meno sviluppati che siedono all’Onu con un tasso di alfabetizzazione pari a un abitante su quattro, privo di un sistema sanitario adeguato per i suoi 38 milioni di abitanti, un decimo dei quali risiede a Kabul. Fattori negativi che s’inscrivono in una cornice di carenze più che spiegabile per chi si ritrova dal 1973, dal colpo di stato di Mohammed Daud Khan che pose fine alla monarchia di Mohammed Zahir Shah, in una condizione perenne di tensione, violenza e guerra.
Dall’antichità all’età contemporanea, l’Afghanistan è stato utilizzato per la sua posizione strategica e l’Occidente, fin dai tempi dell’Impero Britannico, non ha esitato ad occuparlo o mantenerlo sotto la sua influenza anche a costo di pedaggi elevati in termini di risorse economiche, vite umane e anche di orgoglio nazionale ferito. Non ultima, l’Unione Sovietica che all’Afghanistan deve una parte della sua destabilizzazione e dissoluzione principiate con l’invasione del 1979. La sconfitta dell’Armata Rossa è la cartina di tornasole di come la storia si ripeta anche sotto forma di tragedia: una società feudale che sconfigge un impero. Così come accadde nel Basso medioevo contrassegnato in Italia dall’età dei Comuni, quando nel 1176 la Lega Lombarda sconfisse l’imperatore Barbarossa a Legnano. Ma le vittorie possono rivelarsi anche potenti boomerang: all’Italia, per esempio, occorsero altri sette secoli per raggiungere l’unità nazionale.
Dunque, accertata l’impossibilità che il Paese asiatico possa “difendersi da solo”, non sarebbe sacrilego che l’Unione Europea provi a dire la sua, far sentire la sua voce in sede Nato e scrollarsi di dosso la tutela americana che oggi è soltanto un comodo alibi per l’inazione. Per fare ciò Bruxelles dovrebbe assumere un comportamento adulto, meno compromissorio con le dichiarazioni di Biden, consapevole di ciò che accadrà presto in Afghanistan (film a color rosso sangue già visto anni fa) con gli inevitabili riflessi di pressioni alle frontiere, crisi umanitarie e allarme terrorismo nei paesi europei, a meno di considerare i talebani “nuovi garanti e controllori” del jihad islamico contro l’Occidente. L’urgenza ha motivazioni anche strettamente politiche per l’inevitabile assestamento dell’Unione Europea a trazione franco-tedesca con l’addio al Cancellierato di Angela Markel e a causa delle difficoltà interne che attraversa l’inquilino dell’Eliseo Emmanuel Macron, di cui potrebbero approfittare il leader ungherese Viktor Orban e il gruppo di Visegrad.
Ma non è tutto. Occorre riconsiderare il ruolo di Cina, Russia e Turchia1, che si accreditano (con discrezione) a turno o in “combinata speciale” come gli interlocutori o partners ideali per offrire un futuro all’Afghanistan, mentre il “nemico numero uno” dell’America, l’Iran2, confida che il rompicapo afghano partorisca maggiore instabilità ai confini, ai valichi controllati dai talebani, per innescare un nuovo mix esplosivo nell’area che gli Usa non sarebbero in grado di gestire (come in Iraq), con conseguente perdita di autorevolezza e influenza. In altri termini, una débâcle politica e culturale per l’intero Occidente che vedrebbe assottigliarsi pericolosamente i suoi margini di leadership mondiale. Esattamente ciò che si prefigurava Osama bin Laden dopo l’11 settembre con l’attentato alle Torri gemelle di New York.
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1 In
Afghanistan: la politica di “guerra e pace” dei talebani
href=https://www.laportadivetro.org/wp-content/uploads/2021/07/model_-mir-1.pdf
2 In La guerra ombra sui mari tra Israele e Iran href=https://www.laportadivetro.org/wp-content/uploads/2021/08/model_-gtm.pdf
Posted on: 2021/08/12, by : admin
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