Tra ebrei e palestinesi a vincere sono soltanto gli estremisti

di Germana Tappero Merlo |

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Non è la solita guerra quella che si sta combattendo fra israeliani e palestinesi. Non è nemmeno una nuova intifada. Solo le parti contrapposte sono le stesse, con lo stesso squilibrio nel numero di vittime. Per il resto, invece, è tutto inedito.

È vero, Gaza si ripropone come bersaglio principale per la rappresaglia ebraica, ma solo perché da lì partono i missili contro Israele, ed è lì che Hamas ha i suoi quartier generali militari, ma non i suoi massimi leader politici, ospitati comodamente in Qatar. È lì che si dipana la lunga rete di tunnel sotterranei (definiti ironicamente la ‘metropolitana di Gaza’) che arriva sino al di fuori di quel territorio palestinese per raggiungere quello egiziano ed israeliano: dal primo vi passano armi, esplosivi, ma anche materiale e manodopera per costruire quei tunnel; verso il secondo, vi transitano guerriglieri che, sovente e da tempo, sbucano nei giardini delle residenze ebraiche per colpire rapidamente e fuggire in salvo, di nuovo verso Gaza.

È quella rete di tunnel, dopo gli edifici di comando e di propaganda, oltre che le prestigiose residenze dei capi di Hamas, ad essere oggetto degli ultimi e pesantissimi attacchi da parte dell’IAF, le forze aeree ebraiche. È la battaglia in superficie di quella che è da parecchio tempo considerata la ‘underground warfare’, combattuta fra quegli estremisti di Gaza e le forze di contrasto ebraiche. Il risultato è una Gaza che sprofonda nel suo sottosuolo, in quell’intreccio di tunnel costruito con il supporto di ingegneri di Hezbollah, ormai considerati mastri in quella tecnica e responsabili nel rendere il sottosuolo del Vicino oriente una sorta di gruviera, dal Libano sino al confine fra Siria, Iraq e Turchia. Una rete in Gaza costata milioni di dollari, con finanziamenti provenienti da ignari aiuti umanitari internazionali e quelli, più consapevoli, dell’Iran. È storia nota. È storia quotidiana in questa parte di Medio Oriente.

La convivenza dimenticata tra arabi-israeliani e israeliani

Questa guerra non è nemmeno una nuova Intifada. Potrebbe diventarlo, oppure no. Si tratta di un’etichetta per uno scontro che richiede una vasta partecipazione che, per ora, pare non esserci, mentre l’intensità e la diffusione geografica degli scontri fra cittadini arabi-israeliani (circa il 20% della popolazione e discendenti dei palestinesi che rimasero nel paese dopo la guerra del 1948) ed israeliani in luoghi come Lod, Ramla, Acri, Jaffa, Nasiriyah, sino addirittura Tiberiade e Haifa, è del tutto inconsueta. Luoghi in cui la coesistenza fra le due anime di quel Paese era addirittura un modello, anche se con disagi quali droga e povertà fra i più giovani. Una pacifica convivenza che si era rinsaldata nel corso dell’emergenza da pandemia, abituandoci a scene di quotidiana collaborazione e sostegno reciproco fra medici, infermieri, paramedici e forze politiche ed economiche locali di entrambe le parti.

Che cos’è successo allora? Questa nuova guerra, che potrebbe diventare civile a tutti gli effetti, ha un fondamento negli estremismi di entrambi. Minoranze aggressive, ostili, restie già alle rigide regole del lockdown (una lotta quotidiana da parte delle forze di polizia a far indossare le mascherine agli ebrei haredi, quelli ortodossi, per capirci, o per il divieto di assembramenti e il rispetto, anche lì, del coprifuoco) e che fanno capo a giovani dell’estrema destra ebraica, come Lehava, oppure teppisti del calcio noti come La Familia (tifoseria più calda e razzista del Beitar Gerusalemme) e gruppi di coloni che, tutti costoro rigorosamente vestiti di nero e al grido ‘morte agli arabi’, decisi a vandalizzare e linciare, seminano terrore. Messaggi sui social che invitano i propri sostenitori a recarsi a Jaffa dove vengono indicate le strade in cui potrebbe essere possibile entrare nelle case arabe e pugnalare gli occupanti, approfittando della poca polizia presente. Una lacuna a cui il ministero della Difesa, guidato dall’ex generale e vice primo ministro Benny Gantz, ha provveduto colmare con ‘un rafforzamento massiccio’, inviando forze di frontiera a presidiare quelle strade.

Violenza e linciaggi, brodo di coltura degli estremisti di destra ebrei

Non da meno, insieme alle notizie provenienti da Gaza, questi fatti alimentano reazioni di arabi-israeliani. Così è accaduto a Lod, ad esempio, dove si è assistito alle scene più violente tra cui l’accoltellamento di un ebreo mentre si recava alla sinagoga, ma anche tentativi di linciaggio, da cui reazioni convulse, con vittime i più deboli, bambini e donne, anche fra gli stessi arabi. Da parte israeliana, un fattore chiave di responsabilità in ciò che sta accadendo è stata la crescente normalizzazione, per un lungo periodo di anni, dell’estrema destra, in cui leader come Benjamin Netanyahu e Avigdor Lieberman hanno usato la politica del razzismo per fare appello agli elettori, creando aperture politiche a figure più estreme. Questo, secondo osservatori anche israeliani, ha permesso a gruppi violenti di estrema destra di prosperare.

Sono gli estremismi che sottostanno ad una violenza collettiva che, a detta di molti israeliani anche arabi, non ha precedenti in quella nazione. ‘Sembra un conflitto etnico – mi confida una collega, Dahlia Scheindlin, analista di politica israeliana – perché è di più di una reazione ai razzi di Hamas. C’è qualcosa di più profondo sotto la superficie.” E non bastano i tardivi appelli di Netanyahu, secondo cui “Niente giustifica il linciaggio degli arabi da parte degli ebrei e niente giustifica il linciaggio degli ebrei da parte degli arabi”. Israele pare ora poco governabile, debole, in balia di un’anarchia nella sua sicurezza interna, meno in quella militare, anche se il suo sistema di difesa Iron Dome è sottoposto a stress operativo per via dell’alto numero di lanci di razzi, innovativi rispetto ai primordi di Hamas, soprattutto con una maggiore profondità strategica, ossia la possibilità di colpire una più vasta porzione di territorio israeliano.

Un Paese con un governo di transizione, dopo la quarta tornata elettorale in due anni, e che stava per sperimentare un maggior coinvolgimento del mondo politico arabo-israeliano, dapprima con il supporto esterno – ma era comunque un inizio – e poi in un governo di centrosinistra, con la partecipazione di 4 deputati del Partito Arabo Unito di Mansour Abbas. Sembrava, quindi, che vi fosse la possibilità di un maggior coinvolgimento degli arabi-israeliani nella politica, anche con il benestare dello stesso Netanyahu, forse come estremo appiglio per ottenere ancora sostegno e sopravvivere al potere, nonostante i suoi problemi con la giustizia. Quei razzi da Gaza, ma ancor prima le proteste per il quartiere di Shimon HaTzadik (Sheik Jarrah) e, da sempre, i disordini nella spianata delle moschee, e poi di nuovo i razzi, i bombardamenti in risposta, sino ai linciaggi e alle devastazioni sui civili, hanno fermato il tutto, in nome dell’unità per l’emergenza.

Difficile ora pensare di tornare indietro. È la politica che sbaglia, da entrambi i fronti e nei loro massimi vertici. Non è la loro gente, la cui maggioranza, e da tempo, mostra segni di voler voltare pagina. Sono presenti, numerosi, ogni giorno, nella quotidianità della vita in Israele. Basta volerli vedere e non temerli. Sono l’unica arma vincente contro gli estremismi, di entrambi, e basta crederci.




Posted on: 2021/05/16, by :