Tra “fasi” e “ripartenze” esistono le cure palliative
di Alessandro Valle |
| Messo a dura prova dall’emergenza Covid-19, il sistema sanitario italiano ha dovuto rapidamente e drasticamente riorganizzare le proprie attività per far fronte ad un problema di salute pubblica che pochi avrebbero potuto prevedere. La necessità di garantire le migliori cure a questi pazienti e di contenere il rischio di contagio ha creato purtroppo una situazione non nuova che, negli ultimi anni, gli operatori si erano impegnati ad evitare: la morte in solitudine. Può apparire un paradosso che il culmine dell’emergenza Covid sia avvenuto a dieci anni esatti dalla promulgazione della Legge 38/10, che sancisce il diritto del paziente di ricevere le cure palliative e la terapia del dolore. E così, altrettanto paradossalmente, tornano tristemente alla nostra memoria le parole dello scrittore Ferdinando Camon che, molti anni fa, parlava in modo critico della “morte intubata”.
L’emergenza Covid e le sue conseguenze non possono però monopolizzare l’attenzione a tal punto da farci dimenticare l’esistenza dei pazienti affetti da patologie cronico-degenerative in fase avanzata, spesso prossimi alla morte e con drammatiche situazioni sociali di accompagnamento, per le quali le cure palliative rappresentano una risposta appropriata. E non si tratta di situazioni di “nicchia”, dacché si stima che in Italia più di 200 mila persone, annualmente, abbiano bisogno di cure palliative.
Nell’emergenza sanitaria attuale, servizi di cure palliative spesso già sottodimensionati rispetto al bisogno rischiano di offrire una risposta ancor meno puntuale del consueto. Le motivazioni sono note, correlate sostanzialmente al timore del contagio ed all’infezione contratta dagli stessi operatori: riduzione delle prese in carico da parte dei servizi, delle visite domiciliari, dei ricoveri in hospice… Tuttavia, in un momento in cui le “fasi” e le “ripartenze” sono all’ordine del giorno, con le immancabili polemiche, forse inevitabili alla luce delle numerose incertezze che caratterizzano questo periodo così problematico, giova forse ricordare che nel panorama sanitario esistono realtà che non debbono “ripartire”, in quanto non hanno mai interrotto la propria attività. Parlare di “ripartenza” nel caso del servizio di cure palliative domiciliari ed hospice della Fondazione FARO sarebbe fuori luogo, e non soltanto per un giudizio potenzialmente di parte dello scrivente, che della Fondazione FARO è il direttore sanitario, ma perché i dati di attività sono oggettivi e facilmente verificabili. L’attività è proceduta come e più di prima, in stretta collaborazione con il servizio sanitario regionale, certo con tutti gli adempimenti definiti dalla normativa per limitare i rischi di contagio, dall’uso dei dispositivi di protezione individuale, alla regolamentazione dell’accesso in hospice dei parenti, alla sospensione dell’attività dei volontari.
Limitare (non sospendere) le visite dei familiari ai propri cari ricoverati in hospice è stato un atto indispensabile, ma molto doloroso. Tutti noi abbiamo perso persone care, è facile immaginare cosa avrebbe potuto significare non poterci avvicinare nel momento del trapasso, come purtroppo avviene tuttora quando si tratta dei pazienti Covid positivi che muoiono in ospedale. In questi momenti i software per la comunicazione video a distanza, utili ed impiegati in molti casi, perdono totalmente importanza: nel momento del commiato conta la vicinanza fisica, non un personal computer. Inclini a definirci e come un popolo irrispettoso delle regole, occorre ammettere che in questo periodo gli italiani hanno dimostrato grande senso di responsabilità, affrontando i momenti più critici con una dignità ed una compostezza che hanno profondamente impressionato ogni singolo operatore.
Il secondo punto critico è consistito nella sospensione dell’attività dei volontari e di tutte le mirabili attività a favore degli assistiti, problema già descritto in un precedente articolo1, al momento non risolvibile, ma che ci rende ancor più consapevoli dell’importanza del loro ruolo in équipe. Un bilancio di questa esperienza è prematuro, purtroppo siamo ancora molto lontani da un ritorno alla normalità. “Fare squadra” è stato il punto di forza, anche a fronte delle comprensibili preoccupazioni degli operatori. Avremmo fatto volentieri a meno di dover fronteggiare la pandemia, ma la crisi ha fatto riemergere valori forse annebbiati dalla routine quotidiana e dall’individualismo (“l’egoismo indifferente” menzionato da Papa Francesco), come la condivisione delle emozioni, la spontanea solidarietà affettiva e sociale, la consapevolezza del limite, la riscoperta di principi etici trasversali ai vari ambiti della società.
Winston Churchill, spesso critico e sferzante nei confronti della nostra gente, affermava che “gli Italiani vanno alla guerra come fosse una partita di calcio e vanno alla partita come fosse una guerra”. Questa volta, l’illustre statista inglese, nella maggior parte dei casi, è stato solennemente smentito dai fatti.
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Nell’emergenza sanitaria attuale, servizi di cure palliative spesso già sottodimensionati rispetto al bisogno rischiano di offrire una risposta ancor meno puntuale del consueto. Le motivazioni sono note, correlate sostanzialmente al timore del contagio ed all’infezione contratta dagli stessi operatori: riduzione delle prese in carico da parte dei servizi, delle visite domiciliari, dei ricoveri in hospice… Tuttavia, in un momento in cui le “fasi” e le “ripartenze” sono all’ordine del giorno, con le immancabili polemiche, forse inevitabili alla luce delle numerose incertezze che caratterizzano questo periodo così problematico, giova forse ricordare che nel panorama sanitario esistono realtà che non debbono “ripartire”, in quanto non hanno mai interrotto la propria attività. Parlare di “ripartenza” nel caso del servizio di cure palliative domiciliari ed hospice della Fondazione FARO sarebbe fuori luogo, e non soltanto per un giudizio potenzialmente di parte dello scrivente, che della Fondazione FARO è il direttore sanitario, ma perché i dati di attività sono oggettivi e facilmente verificabili. L’attività è proceduta come e più di prima, in stretta collaborazione con il servizio sanitario regionale, certo con tutti gli adempimenti definiti dalla normativa per limitare i rischi di contagio, dall’uso dei dispositivi di protezione individuale, alla regolamentazione dell’accesso in hospice dei parenti, alla sospensione dell’attività dei volontari.
Limitare (non sospendere) le visite dei familiari ai propri cari ricoverati in hospice è stato un atto indispensabile, ma molto doloroso. Tutti noi abbiamo perso persone care, è facile immaginare cosa avrebbe potuto significare non poterci avvicinare nel momento del trapasso, come purtroppo avviene tuttora quando si tratta dei pazienti Covid positivi che muoiono in ospedale. In questi momenti i software per la comunicazione video a distanza, utili ed impiegati in molti casi, perdono totalmente importanza: nel momento del commiato conta la vicinanza fisica, non un personal computer. Inclini a definirci e come un popolo irrispettoso delle regole, occorre ammettere che in questo periodo gli italiani hanno dimostrato grande senso di responsabilità, affrontando i momenti più critici con una dignità ed una compostezza che hanno profondamente impressionato ogni singolo operatore.
Il secondo punto critico è consistito nella sospensione dell’attività dei volontari e di tutte le mirabili attività a favore degli assistiti, problema già descritto in un precedente articolo1, al momento non risolvibile, ma che ci rende ancor più consapevoli dell’importanza del loro ruolo in équipe. Un bilancio di questa esperienza è prematuro, purtroppo siamo ancora molto lontani da un ritorno alla normalità. “Fare squadra” è stato il punto di forza, anche a fronte delle comprensibili preoccupazioni degli operatori. Avremmo fatto volentieri a meno di dover fronteggiare la pandemia, ma la crisi ha fatto riemergere valori forse annebbiati dalla routine quotidiana e dall’individualismo (“l’egoismo indifferente” menzionato da Papa Francesco), come la condivisione delle emozioni, la spontanea solidarietà affettiva e sociale, la consapevolezza del limite, la riscoperta di principi etici trasversali ai vari ambiti della società.
Winston Churchill, spesso critico e sferzante nei confronti della nostra gente, affermava che “gli Italiani vanno alla guerra come fosse una partita di calcio e vanno alla partita come fosse una guerra”. Questa volta, l’illustre statista inglese, nella maggior parte dei casi, è stato solennemente smentito dai fatti.
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1http://www.laportadivetro.org/wp-content/uploads/2020/03/Assistere-pazienti 06.03.2020.pdf
Posted on: 2020/04/20, by : admin
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