Trent’anni fa, primavera ed estate di sangue: morivano Falcone e Borsellino
di Michele Ruggiero|
|Siamo qui per ricordare la lezione e il sacrificio di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, e della moglie di Falcone, Francesca Morvillo, anch’essa magistrato. Il pensiero ritorna con mestizia a ogni primavera e estate, anno dopo anno, per la commemorazione delle stragi di mafia di quel terribile 1992. Annus horribilis.
Da quel 23 maggio e 19 luglio del 1992, dalla perdita di tre magistrati e leali servitori dello Stato, e di altri otto agenti di polizia che facevano parte delle loro scorte, Vito Schifani, Antonio Montinaro, Rocco Dicillo, Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina, si sono inanellati ricordi, testimonianze, processi, veleni, falsità, depistaggi, rancori, arresti eccellenti, condanne, pentimenti, rimpianti, delusioni, trattative e manovre oscure, ma soprattutto silenzi, da parte dello Stato. Silenzi sui nodi cruciali della convivenza civile: diritto al lavoro e i diritti sui luoghi di lavoro in materia di retribuzione e di sicurezza, diritti sull’accessibilità al credito e libertà d’impresa, tutela del diritto alla salute, difesa della sanità pubblica, lotta all’evasione e elusione fiscale, equità nella tassazione e adeguamento della tassazione sulle rendite finanziarie, riforma della giustizia, promozione dello studio, rispetto dei diritti dei carcerati e della devianza minorile.
Argomenti che direttamente e indirettamente non sono estranei alla presenza e alla crescita delle mafie nel nostro Paese, perché ad ogni diritto negato corrisponde “il favore” occulto degli amici degli amici. Favore in apparenza disinteressato, fino a quando non arriva, e arriva sempre puntuale, la richiesta di contraccambiare ciò che è stato ricevuto. Il tutto in un annacquamento nel tran tran quotidiano delle punte d’illegalità che portano all’assuefazione dell’attacco alla legalità, quest’ultima condannata quasi coralmente da quella domanda ripetuta come un mantra che conduce inesorabilmente le vittime nel budello dell’inferno: “ma che male c’è? “.
Invece, il male c’è, eccome, se ti ritrovi a chiedere soldi in prestito a tassi superiori a quelli praticati dal mercato (per usare un eufemismo) per sopperire alle rigidità delle banche o a qualcosa di peggio; il male c’è, eccome, se si è costretti per disperazione ad accettare lavoro “nero”, fuori da ogni regola previdenziale e assicurativa, che produce soltanto vantaggi all’imprenditore disonesto a scapito degli onesti; il male c’è, eccome, se i giovani voltano le spalle all’istruzione per ritrovarsi, in più aree del nostro Paese, facile esca nel reclutamento di bassa manovalanza delle mafie. Ed è un loop in cui rientrano le vite non degli altri, ma di tutti noi, più o meno a vario titolo.
Eppure, lo Stato è silente e in questo precede la politica che si muove come se le mafie, scomparse le stragi, esauritesi le stagioni delle mattanze e dei regolamenti di conti, non esistessero più. L’esatto opposto di ciò che avrebbero sostenuto Falcone e Borsellino, l’esatto contrario di ciò che è stata la loro lezione professionale e della stessa Francesca Morvillo, e di ciò che dovrebbe essere la loro eredità morale, etica e spirituale.
Non si può così che sottoscrivere l’intervento di don Luigi Ciotti, presidente di Libera che oggi, 22 maggio, in prima pagina su “il manifesto” ha ammonito a non accettare la normalizzazione delle mafie perché [esse] si “organizzano come imprese – a cominciare dalla ‘Ndrangheta, la più potente di tutte – realtà insediate nel tessuto economico e capaci di arricchirsi nell’ombra e più forti di quando si imponevano con il tritolo […].
Sono parole che ci riportano a quelle di Gian Carlo Caselli, procuratore capo a Palermo dopo le stragi di Capaci e di via d’Amelio, ascoltate ancora di recente, in una serata del Festival della Legalità a Chivasso: “di una celebre frase di Falcone si ricorda sempre e soltanto la prima parte: la mafia non è affatto invincibile; è un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà anche una fine. Si tralascia però il secondo passaggio: piuttosto, bisogna rendersi conto che è un fenomeno terribilmente serio e molto grave; e che si può vincere non pretendendo l’eroismo da inermi cittadini, ma impegnando in questa battaglia tutte le forze migliori delle istituzioni”. In questo contesto, lo Stato dovrebbe essere al vertice di ogni discorso. Invece è il primo a girarsi dall’altra parte per evitare uno scontro frontale con l’evasione fiscale che non versa… nelle tasche degli italiani oltre 100 miliardi di euro ogni anno, mentre le tasse non riscosse hanno superato il tetto dei 1.100 miliardi di euro, una situazione che peggiora di anno in anno.
Le ultime note sono dedicate all’assassinio della Pace e del suo movimento, e alla marginalizzazione di Papa Francesco, che si stanno consumando da mesi sotto i nostri occhi, i cui convitati di pietra sono proprio le mafie già in prima fila per il lucroso commercio delle armi. Il settore fa loro gola. E nel tempo, sono diventati autentici primattori.
Le mafie hanno fatto “apprendistato” a cominciare dagli anni Ottanta con i narcos trafficanti e complicità varie a livello di agenzie di sicurezza degli stati (su tutte, lo scandalo Irangate e il coinvolgimento del colonnello americano Oliver North) per poi raffinarsi con la caduta del Muro di Berlino e la disintegrazione dell’Unione Sovietica. La guerra dei Balcani le ha poi incoronate al vertice del commercio dell'”usato sicuro”. Ora si apprestano a contabilizzare i ritorni delle armi (abbandonate, sottratte, rubate) in Ucraina.
Il tempo lavora per le organizzazione mafiose, mentre autocrati e presidenti liberamente eletti lavorano per rendere l’umanità meno sicura, in una contrapposizione violenta che uccide, ferisce, deturpa e avvelena l’ambiente. Di questo passo, si “normalizzerà” anche la guerra tra russi aggressori e ucraini aggrediti. Forse, più arduo sarà “normalizzare” nei prossimi mesi la fame e la povertà. Ma non è detto: le mafie potrebbero sempre stupirci…
Posted on: 2022/05/22, by : admin
Da quel 23 maggio e 19 luglio del 1992, dalla perdita di tre magistrati e leali servitori dello Stato, e di altri otto agenti di polizia che facevano parte delle loro scorte, Vito Schifani, Antonio Montinaro, Rocco Dicillo, Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina, si sono inanellati ricordi, testimonianze, processi, veleni, falsità, depistaggi, rancori, arresti eccellenti, condanne, pentimenti, rimpianti, delusioni, trattative e manovre oscure, ma soprattutto silenzi, da parte dello Stato. Silenzi sui nodi cruciali della convivenza civile: diritto al lavoro e i diritti sui luoghi di lavoro in materia di retribuzione e di sicurezza, diritti sull’accessibilità al credito e libertà d’impresa, tutela del diritto alla salute, difesa della sanità pubblica, lotta all’evasione e elusione fiscale, equità nella tassazione e adeguamento della tassazione sulle rendite finanziarie, riforma della giustizia, promozione dello studio, rispetto dei diritti dei carcerati e della devianza minorile.
Argomenti che direttamente e indirettamente non sono estranei alla presenza e alla crescita delle mafie nel nostro Paese, perché ad ogni diritto negato corrisponde “il favore” occulto degli amici degli amici. Favore in apparenza disinteressato, fino a quando non arriva, e arriva sempre puntuale, la richiesta di contraccambiare ciò che è stato ricevuto. Il tutto in un annacquamento nel tran tran quotidiano delle punte d’illegalità che portano all’assuefazione dell’attacco alla legalità, quest’ultima condannata quasi coralmente da quella domanda ripetuta come un mantra che conduce inesorabilmente le vittime nel budello dell’inferno: “ma che male c’è? “.
Invece, il male c’è, eccome, se ti ritrovi a chiedere soldi in prestito a tassi superiori a quelli praticati dal mercato (per usare un eufemismo) per sopperire alle rigidità delle banche o a qualcosa di peggio; il male c’è, eccome, se si è costretti per disperazione ad accettare lavoro “nero”, fuori da ogni regola previdenziale e assicurativa, che produce soltanto vantaggi all’imprenditore disonesto a scapito degli onesti; il male c’è, eccome, se i giovani voltano le spalle all’istruzione per ritrovarsi, in più aree del nostro Paese, facile esca nel reclutamento di bassa manovalanza delle mafie. Ed è un loop in cui rientrano le vite non degli altri, ma di tutti noi, più o meno a vario titolo.
Eppure, lo Stato è silente e in questo precede la politica che si muove come se le mafie, scomparse le stragi, esauritesi le stagioni delle mattanze e dei regolamenti di conti, non esistessero più. L’esatto opposto di ciò che avrebbero sostenuto Falcone e Borsellino, l’esatto contrario di ciò che è stata la loro lezione professionale e della stessa Francesca Morvillo, e di ciò che dovrebbe essere la loro eredità morale, etica e spirituale.
Non si può così che sottoscrivere l’intervento di don Luigi Ciotti, presidente di Libera che oggi, 22 maggio, in prima pagina su “il manifesto” ha ammonito a non accettare la normalizzazione delle mafie perché [esse] si “organizzano come imprese – a cominciare dalla ‘Ndrangheta, la più potente di tutte – realtà insediate nel tessuto economico e capaci di arricchirsi nell’ombra e più forti di quando si imponevano con il tritolo […].
Sono parole che ci riportano a quelle di Gian Carlo Caselli, procuratore capo a Palermo dopo le stragi di Capaci e di via d’Amelio, ascoltate ancora di recente, in una serata del Festival della Legalità a Chivasso: “di una celebre frase di Falcone si ricorda sempre e soltanto la prima parte: la mafia non è affatto invincibile; è un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà anche una fine. Si tralascia però il secondo passaggio: piuttosto, bisogna rendersi conto che è un fenomeno terribilmente serio e molto grave; e che si può vincere non pretendendo l’eroismo da inermi cittadini, ma impegnando in questa battaglia tutte le forze migliori delle istituzioni”. In questo contesto, lo Stato dovrebbe essere al vertice di ogni discorso. Invece è il primo a girarsi dall’altra parte per evitare uno scontro frontale con l’evasione fiscale che non versa… nelle tasche degli italiani oltre 100 miliardi di euro ogni anno, mentre le tasse non riscosse hanno superato il tetto dei 1.100 miliardi di euro, una situazione che peggiora di anno in anno.
Le ultime note sono dedicate all’assassinio della Pace e del suo movimento, e alla marginalizzazione di Papa Francesco, che si stanno consumando da mesi sotto i nostri occhi, i cui convitati di pietra sono proprio le mafie già in prima fila per il lucroso commercio delle armi. Il settore fa loro gola. E nel tempo, sono diventati autentici primattori.
Le mafie hanno fatto “apprendistato” a cominciare dagli anni Ottanta con i narcos trafficanti e complicità varie a livello di agenzie di sicurezza degli stati (su tutte, lo scandalo Irangate e il coinvolgimento del colonnello americano Oliver North) per poi raffinarsi con la caduta del Muro di Berlino e la disintegrazione dell’Unione Sovietica. La guerra dei Balcani le ha poi incoronate al vertice del commercio dell'”usato sicuro”. Ora si apprestano a contabilizzare i ritorni delle armi (abbandonate, sottratte, rubate) in Ucraina.
Il tempo lavora per le organizzazione mafiose, mentre autocrati e presidenti liberamente eletti lavorano per rendere l’umanità meno sicura, in una contrapposizione violenta che uccide, ferisce, deturpa e avvelena l’ambiente. Di questo passo, si “normalizzerà” anche la guerra tra russi aggressori e ucraini aggrediti. Forse, più arduo sarà “normalizzare” nei prossimi mesi la fame e la povertà. Ma non è detto: le mafie potrebbero sempre stupirci…
Posted on: 2022/05/22, by : admin