Ucraina e pandemia, quando a imporsi è la dittatura della Notizia Dominante

di Emanuele Davide Ruffino
e Germana Zollesi |

|

Gli ospedali non sono mai stati bombardati, anzi sono stati bombardati ma erano vuoti, anzi no, erano diventate basi militari… Tra le notizie che arrivano dall’Ucraina è inevitabile porsi la domanda “a chi credere?”. L’unica cosa certa è che gli ospedali torinesi cominciano a ricevere sempre più malati di cancro dal Paese in guerra che ha subito l’aggressione della Russia.

Una volta la discrezionalità era massima quado si parlava di gossip, poi il testimone è passato alla validità dei vaccini e ora sulle notizie dal fronte. Tra il 7 e il 9 marzo l’indice di positività è passato dall’8 al 11% (ed è ancora in crescita, ormai al 15%), ma i maggiori organi di informazione hanno parlato di diminuzione o stabilità. In Italia, per lo meno, possiamo parlare della guerra in Ucraina e non di “operazioni belliche”, senza incorrere in 15 anni di carcere, ma nonostante l’eroismo di alcuni reporter che, come Brent Renaud1, per informarci, hanno perso la vita, le interpretazioni su cosa succede sono soggette a troppi fraintendimenti.

L’inflazione del termine dittatura

In una logica della dittatura della notizia dominante, tutto deve essere trasmesso in diretta, e ciò induce a trarre conclusioni affrettate, lasciando spazio a dubbi interpretativi, su cui si innestano le più stravaganti teorie negazioniste. Il termine dittatura è stato tra i lemmi più abusati nel corso degli ultimi anni, spesso utilizzato solo per sottolineare il dissenso con una posizione con cui si vuole evitare di confrontarsi, preferendo la radicalizzazione del dibattito. E così chi evoca la dittatura rischia di essere lui stesso l’artefice di un sistema che impedisce il dialogo e tenta di imporre, senza contradditorio, il proprio parere.

Il lockdown prima, e la guerra in Ucraina oggi, hanno rilevato come il giornalismo e, sia pur con metodologie profondamente diverse, i mass media, hanno inseguito la “Preoccupazione Dominante”, concentrando l’interesse verso la notizia a maggior effetto che riesce ad attrarre l’attenzione, più che a fornire un’analisi delle informazione che, a prescindere da ogni considerazione, devono essere complete ed esaustive.

Noi occidentali viviamo in paesi dove la disinformazione è solo conseguenza del nostro comportamento, dettato dalla volontà di acquisire notizie, più che di esaminarle (e la conoscenza non si basa sul numero di cognizioni apprese, ma sulla capacità di elaborarle in modo corretto). La nostra voglia di ascoltare buone notizie, può spingere a crearne di false: nella nostra società non c’è più la censura, ma l’inondazione di informazioni può generare una nube in cui diventa difficile individuare la verità.

Enzo Biagi diceva: “I telegiornali dipendono molto dalla situazione politica e da chi comanda in quel momento”. Verissimo. Ma rivisitando quei telegiornali, con gli occhi della storia, si può affermare che hanno prodotto molta verità e, soprattutto, molta cultura. La diffusione dei mezzi informatici e dei social hanno profondamente modificato il modo di fare e diffondere cultura, facendola diventare sempre più un oggetto di consumo immediato che rischia marginalizzare la memoria e di non lasciare il segno o di generarne di indesiderati.

L’informazione è diventata virtuale, facilmente accessibile ed auto-generata, ma spesso non offre momenti di riflessione e apprendimento. L’esperienza del lockdown ha rilavato come la cultura deve essere “tesaurizzata”, alternando strumenti on line con soluzioni maggiormente conservative, nel senso di offrire spazi e tempi affinché non vi sia solo una trasferimento delle notizie, ma la possibilità di accumulare sapere per possibili rivisitazioni.

La notizia e le loro fonti

Sarà vera l’indagine commissionata dal Governo finlandese che, per la prima volta nella sua storia, segnala come la maggioranza della popolazione sia favorevole all’ingresso nella Nato? Al di là della risposta, resta forte l’impressione che si tratti di inchieste marginali, ma che rilevano la consapevolezza di situazioni che si vanno a consolidare nel percepito popolare, indipendentemente dalla singola notizia. Si va a formare una specie di Social brain che sintetizza e rielabora le informazioni lanciate dai sistemi comunicativi dando origine ad una specie di “intelligenza sociale”, da affiancarsi all’intelligenza artificiale.

Spiegare il comportamento sociale quale conseguenza dei processi di apprendimento può aiutare a capire come i comportamenti attuali spaziano da slanci altruistici nell’aiutare milioni di ucraini che stanno cercando una possibilità di salvezza a chi nega l’esistenza di una guerra alle porte dell’Europa. L’unica cosa certa sembra essere l’aumento dei carburanti, ma sulle sue ragioni, le ipotesi sono le più disperate, anche perché gli aumenti sono alquanto differenziati da Paese a Paese, e non sempre riconducibili ai fatti bellici. E su questo dato, si possono facilmente creare allarmismi (con finalità di destabilizzazione politica), nonché giocare sulle paure di non avere più da riscaldarsi o sui blocchi dei trasporti che potrebbero privarci di prodotti cui siamo abituati e che consideriamo essenziali.

Sulla soglia dell’economia di guerra

La storia ci spiegherà perché siamo arrivati a dipendere così tanto dall’estero per l’energia, ignorando la possibilità di creare magazzini virtuali (in “L’economia dell’incertezza: il management in tempo di pandemia” del 2 settembre 20212), ma oggi dobbiamo affrontare una crisi epocale per cui diventa essenziale fare affidamento su un sistema di informazioni affidabili, cominciando con l’escludere chi, dal caos informativo, ne trae vantaggio, per giungere ad un’elaborazione di ragionamenti più che dell’episodico.

Già si prospetta un’economia di guerra (intesa quale adeguamento del sistema alle necessità impellenti) e per affrontarla occorre disporre anche di un’informazione di guerra. Il problema è duplice: la guerra obbliga, da un lato, a rendere disponibili risorse per gli armamenti e il mantenimento degli eserciti e, dall’altro, organizzare la produzione a sostegno delle necessità belliche. Così un’informazione di guerra presuppone il massimo livello di trasparenza per rendere credibile il messaggio, ma occorre anche organizzare il sistema in modo che, chi vuole provocare confusione sia immediatamente evidenziato e isolato. L’informazione di guerra non deve trascurare gli aspetti indotti che, i drammi rilevati sui fronti, potrebbero oscurare: i mass media e i social non devono diventare strumenti di distrazione di massa, ma aiutare a comprendere cosa sta succedendo. Quanto più il conflitto si prolungherà, tanto maggiori dovranno essere le attenzioni da dedicare a tutti i livelli.

Nell’immediato, non si sottolinea come la modalità classica di finanziare la guerra, oltre all’aumento della pressione fiscale (mai troppo gradita) e alle donazioni (che dalle crociate in poi hanno riversato risorse inimmaginabili) è l’inflazione. Questa può conferire agli Stati un potere d’acquisto immediato, ma può generare conseguenze non controllate. L’inflazione è già esplosa prima ancora di entrare in guerra e il problema si presenta particolarmente grave per i Paese maggiormente indebitati che, come la Russia, rischiano di diventare facili mercati per chi, come la Cina, dispongono di ingenti risorse monetarie. Putin è avvertito. Ma lo siamo anche noi. _______