Un anno dopo: l’attacco a Capitol Hill, una vicenda non solo americana

di Germana Tappero Merlo|

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“Oggi è questa America dei vincitori che appare in crisi. Le soluzioni e le illusioni del capitalismo liberale non bastano più: tutti i valori su cui essi hanno fondato una società appaiono in discussione; il ‘migliore dei mondi possibile’ costruito abbattendo spietatamente ogni resistenza, appare sull’orlo del fallimento, dal punto di vista sociale, psicologico, ecologico e morale. Da qui partono le forze che si battono per un’America nuova e diversa”. Così scriveva, già nel 1974, Raimondo Luraghi,1 fra i più acuti e preparati studiosi della storia degli Stati Uniti,2 che mi è stato maestro come storico e analista militare. E non poteva esserci introduzione migliore a commentare e ricordare i fatti accaduti a Capitol Hill, il 6 gennaio 2021, circa cinquant’anni dopo, quindi, quella affermazione.

Un assalto di uomini e donne, cittadini americani, civili anche armati, ai luoghi simbolo del potere democratico statunitense, tutti travolti da una rabbia di chi si era sentito defraudato dei propri voti, da cui la mancata ri-elezione di Donald Trump. Quel ‘Stop the steal’3 urlato e minacciato, era il segnale per un’offensiva non solo più a colpi di hashtag e meme ironici sui social network ma, se il caso, anche armata. La giornata di scontri ed assalti si sarebbe poi chiusa con cinque morti e numerosi feriti. Immagini che avevano scosso l’America, ed oltre. Perché, ritornando al commento di Luraghi “la più grande perla che la civiltà americana porta con sé, la libertà”, di opinione, di espressione e di voto, era stata tradita da nemici che le forze assalitrici Capitol Hill avevano già chiaramente identificato da tempo.

L’America liberale era quindi per costoro nuovamente sotto attacco, come nel più tragico 11 settembre 2001 o, ancora prima, il 7 dicembre 1941, anche se questa volta da avversari interni, quei componenti l’establishment del neo-presidente Biden, e quelli di un Deep State, o Stato Profondo, che attraverso cabale, pedofilia, crisi politiche, finanziarie e addirittura sanitarie, complice la pandemia da Covid-19, tutte pilotate per altri interessi rispetto al bene comune, si erano mosse per distruggere alle fondamenta l’intero Paese.

Si trattava di un tradimento alla nazione, anche da parte di chi fino a poco prima l’aveva gestito con Trump, ossia quel vice-presidente Mike Pence che ora, perché presente alla cerimonia di insediamento di Biden, ne avvallava la vittoria e quindi, come traditore, meritava l’impiccagione. Un livore che si diffondeva on line e raggiungeva un’ampia platea di americani, insoddisfatti, arrabbiati e pronti ad agire, e da internet passava alle vie di fatto nelle strade e nei luoghi simbolo di Washington.
Il richiamo al ‘giorno del cappio’ per tutti gli oppositori, boicottatori del Make America Great Again, o MAGA, di Trump era il chiaro riferimento del popolo di Capitoll Hill, ad una cultura violenta e ad una letteratura distopica che fa della paranoia uno stile costante della politica americana, che sovente riemerge con prepotenza e si impone nel dibattito di quella nazione, come evidenziato, già a metà degli anni Sessanta, da Richard Hofstadter, un altro grande storico statunitense.4

Una cultura violenta e un approccio paranoico che non sono affatto di nicchia. Al contrario, sono popolari e comuni, come lo sono ora i movimenti che li diffondono, soprattutto in rete, e protagonisti di quel 6 gennaio di un anno fa, e che si ritrovano sotto un più ampio ombrello di narrazioni cospirative rappresentate da QAnon, Proud Boys e Boogaloos Bois, per citare i più noti e radicali. Gli stessi che hanno visto nella disfatta militare degli Stati Uniti in Afghanistan il segnale della fine di un’era di politica corrotta e incapace a salvaguardare i valori propri dell’America e che, all’indomani della smobilitazione, affrettata e addirittura sanguinaria da Kabul, invitavano i propri connazionali a godersi ‘l’umiliazione’ di un ritiro statunitense,5 pressoché una fuga senza vittoria.

Non meraviglia, quindi che già prima dei fatti del 6 gennaio 2021 circolassero in rete riferimenti a un ‘Q-army’ pronto a dare il via al ‘Grande Risveglio’ della nazione, ossia ad una rivoluzione attraverso una vera e propria ‘tempesta’, dai toni e riferimenti trumpiani, e a cui crede ancor oggi, peraltro, un americano su cinque che, non a caso, si dichiara pronto ad intervenire anche militarmente. Proprio il Deep State, per costoro, doveva, e ancora deve, essere travolto da un tornado, un Trumpnado, anche detto Anons’ Storm.

Basterà un segnale a colpi di hastag – perché il richiamo è rigorosamente on line – con le parole d’ordine come Where We Go One, We Go All (‘dove va uno, andiamo tutti’) #WWG1WGA e, compattamente, patrioti, miliziani e veterani muoveranno di nuovo verso Washington per il grande risveglio della società, quell’altra, quella incosciente della cospirazione e non in grado di comprendere quanto sia manipolata dai grandi interessi di un Deep State, appunto. “Poiché le cose sono andate così fuori strada, i veri patrioti americani potrebbero dover ricorrere alla violenza per salvare il nostro Paese”, è d’altronde, ancor oggi, ad un anno da quei fatti, la ferma convinzione del 15% degli americani.

Ecco anche perché della chiamata ad un Summit for Democracy proposta e realizzata virtualmente dall’amministrazione Biden poco più di un mese fa, a cui hanno partecipato 110 Paesi, laddove l’urgenza è stata data dalla convinzione americana che i diritti al voto anche delle minoranze siano messi in crisi da quello che lo stesso Biden ha definito ‘un arretramento della democrazia’ a favore di posizioni estremiste ed autocrazie. La partecipazione al voto, quindi, la sua legittimità e reale rappresentatività sono i perni su cui si sta muovendo l’intero dibattito sulla sorte dei sistemi liberali e democratici, a partire da quello statunitense, dove tutto ebbe inizio un anno fa, ma che è destinato, a breve, a raggiungere altri confini.

È la stessa ansia che pervade ora quelle democrazie europee, come la Francia di un Macron che, probabilmente in cerca di un allargamento del consenso alle prossime presidenziali, ha preferito non urtare la destra estrema francese e ha acconsentito ad ammainare la bandiera europea, che aveva fatto issare sotto l’Arco di Trionfo a Parigi al posto di quella francese. Un oltraggio all’identità nazionale, è stato urlato da esponenti come Marine Le Pen, Valérie Pécresse e quel Eric Zemmour che, fra l’altro, è fra gli autori e sostenitori di narrazioni come “Le Grand Remplacement”, la grande sostituzione della razza bianca con quella dei migranti, soprattutto neri, a ondate migratorie illegali.

Un pericolo imminente da contrastare, quindi, anche se al momento solo con la violenza delle parole e con gesti carichi di livore per chi, come Zemmour, conta solo riaffermare la sua fede nella Francia eterna, superiore a qualsiasi altro valore morale. Una granitica convinzione che non è dissimile a quella dell’America first o di una MAGA trumpiani. L’ammaina bandiera europea di Macron, di fronte a costoro, equivale a una ulteriore conferma dei suoi timori di perdere l’Eliseo al prossimo giro elettorale, fra qualche mese, perché è chiaro che quella corsa si giocherà parecchio a destra.

È quella stessa destra che rischia di nutrirsi della cultura o, peggio, delle sottoculture di un estremismo violento che si sono manifestate a Washington esattamente un anno fa e che derivano da una crisi decennale e conclamata delle democrazie sociali liberali e dei loro assetti costituzionali, da cui, appunto, la reviviscenza di radicalismi reazionari, a cui si aggiungono interpretazioni cospirazioniste difficili da scardinare e che si stanno imponendo un po’ ovunque nel mondo occidentale.

Perché “dire che la civiltà costruita dal capitalismo e dalla tecnologia in America è in crisi, equivale a dire che è in crisi il mondo intero”, affermava ancora Luraghi, aggiungendo “questa è la realtà dell’oggi. Anche per ciò l’esperienza americana è di importanza vitale per l’uomo moderno; e sul popolo degli Stati Uniti grava l’immensa responsabilità di trovare nuove vie non solo per se stesso, ma, potendolo, indirettamente, per l’umanità”.

I presupposti dell’attuale crisi delle democrazie liberali si sono ormai chiaramente manifestati, a cui si è aggiunta quella ‘dittatura dell’incerto presente’6 portata dalla pandemia che produce gravosi dubbi sul futuro di milioni di individui. Sono ora necessarie risposte urgenti e condivise, laddove l’Europa non appare ancora così unita al punto da garantirle con granitica certezza. Ma rimane altresì il dubbio che l’America del popolo di Capitol Hill, che conta al momento trenta milioni di sostenitori, sia la risposta giusta che il resto del mondo occidentale e, indirettamente, l’intera umanità, realmente si aspetta.

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1Raimondo Luraghi (1921–2012) è stato uno storico, partigiano, giornalista e accademico italiano, medaglia d’oro per meriti culturali (1998) e pluridecorato nella seconda Guerra mondiale e nella Guerra di Liberazione. Dopo i primi inizi all’Unità (edizione nazionale di Torino) nell’immediato secondo dopoguerra, la laurea all’ateneo subalpino, divenne professore di “Storia americana” nell’Università di Genova. Apprezzato come uno dei massimi studiosi al mondo della guerra civile americana, dei cui aspetti militari ha dato interpretazioni originali suffragate da ricerche col metal detector sui campi di battaglia: la sua “Storia della guerra civile americana” è tuttora considerata la miglior opera al mondo in un solo volume sull’argomento, tradotta in inglese è diventata un classico anche negli stessi Stati Uniti.
2 R. Luraghi, Gli Stati Uniti, Utet, Torino 1974, p. 654.
3 Si tratta di una teoria complottista di destra che si è diffusa negli Stati Uniti nel corso delle elezioni presidenziali del 2020; in italiano equivale a “Fermate il furto”
4R. Hofstadter, Lo stile paranoide nella politica americana, Adelphi, Milano 2021.
5https://www.laportadivetro.org/wp-content/uploads/2021/09/model_gtm02-.pdf
6 M. Augé, Futuro, Bollati Boringhieri, Torino 2012.




Posted on: 2022/01/03, by :