“Un Tavolo permanente della Regione contro il collasso dei Pronto soccorso”
di Franco Riccardini* |
|La situazione non è da bollino nero, ma è grigia: i Pronto soccorso rischiano di collassare, in Piemonte come in tante altre regione italiane. E i primi a rendersene conto sono i cittadini, gli utenti, i malati. Nulla di nuovo sotto il sole, sia chiaro, ma la pandemia, che dura oramai da quasi due anni, non ha offerto sprazzi di miglioramento. Con un gioco di parole, dovremmo dire che oggi una delle priorità è correre in soccorso dei Pronto soccorso. Metterli sotto osservazione. Una soluzione potrebbe essere quella di costituire un tavolo permanente di tutte le rappresentanze sanitarie (medici, paramedici, tecnici), insieme ai dirigenti aziendali di Aso e Asl, per affrontare periodicamente il punto delle criticità, proporre interventi tempestivi, offrire linee guida di comportamento di contrasto all’implosione di strutture che nei decenni sono state costrette a cambiare pelle, a modificare la loro missione, sotto l’incalzare di una sanità deprivata di risorse e sempre più impoverita sul territorio.
Ne deriva che i Pronto soccorso sono l’effetto di una pre-crisi: quella che investe il territorio, inadeguato o carente nella prevenzione e nell’assistenza. Una criticità che ha trasfigurato il ruolo del Pronto soccorso, che in un sistema sanitario “ideale” è soltanto l’anello che congiunge il territorio all’ospedale, cioè al terminale delle acuzie che provvede alla cura del paziente da “restituire” al primo. Al contrario, con un territorio in sofferenza, il Pronto Soccorso si è trasformato in un luogo di cura anche per chi non ha problemi urgenti, ma che ha necessità di risposte urgenti (esami, visite specialistiche). Uno scenario che, in una città come Torino, terza città d’Italia per numero di over 75, è destinato a peggiorare, perché le cifre, quando si entra nel tunnel della sanità, devono sempre essere interpretate e possibilmente scomposte per fasce d’età. E non ha senso alcuno, come si obietta da più parti, che il numero di passaggi nei Pronto Soccorso della città non è aumentato. L’affermazione è corretta, ma il quotidiano ci racconta un’altra storia: quella di malati anziani, pluripatologici che richiedono tempi maggiori di osservazione, di cura e di assistenza. Un fronte di 360 gradi che ha snaturato (e stressato), insieme alla funzione o missione, anche il lavoro stesso di medici e infermieri. A ciò si aggiunge, altro corno della vexata quaestio, la riduzione nell’ultimo decennio, di circa il 30 per cento dei posti letto in ospedale. Ne consegue che si forma il classico collo di bottiglia, in cui il tempo di degenza dei malati nei Pronto soccorso spesso supera le 24 ore. Le conseguenze supplementari non dovrebbero essere difficili da comprendere anche ai non addetti ai lavori: saturazione dei locali (di strutture ospedaliere peraltro obsolete, non certo alberghi a cinque stelle), aumento del disagio dei pazienti, reazioni di sdegno (non sempre civiche…) dei parenti; ultimo, ma non meno importante, crescita di “burn out” e frustrazione tra gli operatori quotidianamente ostaggi di un’organizzazione del lavoro che oggettivamente non può aderire alle molteplici richieste (in primis, per mancanza di mezzi, spazi e risorse umane), che non si può trasfigurare da soggetto di cura a soggetto dedicato all’assistenza. Al quale i cittadini tuttavia chiedono – legittimamente – che sia a prova di errore, nel senso più ampio del termine. Un ossimoro. Soprattutto se permane una visione economicistica di “tagli” continui alla sanità, cui non corrispondono in parallelo analisi e studio su come rivitalizzarla, e se non si attenua il peso specifico dell’ospedale rispetto al territorio (per il quale occorrerebbero investimenti nella medicina di base e generale), che ha determinato l’attuale squilibrio tra cura e assistenza nei Pronto soccorso. I cittadini devono accettare una regola semplice: in ospedale deve presentarsi soltanto chi soffre di acuzie di media e alta intensità. Ma per prima è la politica che deve altresì comprendere che chi soffre, chi attende in chilometriche liste di attesa per esami diagnostici o strumentali, esasperato, non ha altra strada che rivolgersi al Pronto soccorso.
*Medico, già responsabile del Pronto Soccorso “Città della Salute-Molinette”.
Posted on: 2021/07/31, by : admin
Ne deriva che i Pronto soccorso sono l’effetto di una pre-crisi: quella che investe il territorio, inadeguato o carente nella prevenzione e nell’assistenza. Una criticità che ha trasfigurato il ruolo del Pronto soccorso, che in un sistema sanitario “ideale” è soltanto l’anello che congiunge il territorio all’ospedale, cioè al terminale delle acuzie che provvede alla cura del paziente da “restituire” al primo. Al contrario, con un territorio in sofferenza, il Pronto Soccorso si è trasformato in un luogo di cura anche per chi non ha problemi urgenti, ma che ha necessità di risposte urgenti (esami, visite specialistiche). Uno scenario che, in una città come Torino, terza città d’Italia per numero di over 75, è destinato a peggiorare, perché le cifre, quando si entra nel tunnel della sanità, devono sempre essere interpretate e possibilmente scomposte per fasce d’età. E non ha senso alcuno, come si obietta da più parti, che il numero di passaggi nei Pronto Soccorso della città non è aumentato. L’affermazione è corretta, ma il quotidiano ci racconta un’altra storia: quella di malati anziani, pluripatologici che richiedono tempi maggiori di osservazione, di cura e di assistenza. Un fronte di 360 gradi che ha snaturato (e stressato), insieme alla funzione o missione, anche il lavoro stesso di medici e infermieri. A ciò si aggiunge, altro corno della vexata quaestio, la riduzione nell’ultimo decennio, di circa il 30 per cento dei posti letto in ospedale. Ne consegue che si forma il classico collo di bottiglia, in cui il tempo di degenza dei malati nei Pronto soccorso spesso supera le 24 ore. Le conseguenze supplementari non dovrebbero essere difficili da comprendere anche ai non addetti ai lavori: saturazione dei locali (di strutture ospedaliere peraltro obsolete, non certo alberghi a cinque stelle), aumento del disagio dei pazienti, reazioni di sdegno (non sempre civiche…) dei parenti; ultimo, ma non meno importante, crescita di “burn out” e frustrazione tra gli operatori quotidianamente ostaggi di un’organizzazione del lavoro che oggettivamente non può aderire alle molteplici richieste (in primis, per mancanza di mezzi, spazi e risorse umane), che non si può trasfigurare da soggetto di cura a soggetto dedicato all’assistenza. Al quale i cittadini tuttavia chiedono – legittimamente – che sia a prova di errore, nel senso più ampio del termine. Un ossimoro. Soprattutto se permane una visione economicistica di “tagli” continui alla sanità, cui non corrispondono in parallelo analisi e studio su come rivitalizzarla, e se non si attenua il peso specifico dell’ospedale rispetto al territorio (per il quale occorrerebbero investimenti nella medicina di base e generale), che ha determinato l’attuale squilibrio tra cura e assistenza nei Pronto soccorso. I cittadini devono accettare una regola semplice: in ospedale deve presentarsi soltanto chi soffre di acuzie di media e alta intensità. Ma per prima è la politica che deve altresì comprendere che chi soffre, chi attende in chilometriche liste di attesa per esami diagnostici o strumentali, esasperato, non ha altra strada che rivolgersi al Pronto soccorso.
*Medico, già responsabile del Pronto Soccorso “Città della Salute-Molinette”.
Posted on: 2021/07/31, by : admin