Una barca di nome Speranza
di Francesca Vallarino Gancia * |
| La barca dei migranti che è arrivata a Torino è nata da un sogno iniziato nel 2017 quando mi sono imbarcata sulla nave Aquarius di SOS Méditerranée come psicologa e Testimony Collector. In quell’occasione ho incominciato a pensare che sarebbe stato bello e importante portare una di queste barche di legno, speranza e a volte salvezza per molte persone, nella nostra sede di Mamre, l’associazione che ho fondato insieme con suor Giuliana Galli a Torino nel 2001, che persegue fini solidaristici.
Era un sogno che però mi sembrava impossibile, non sapevo nemmeno da dove iniziare anche se ero già stata parecchie volte a Lampedusa e avevo visitato il “cimitero delle barche dei migranti”, in realtà una discarica di relitti accatastati nella zona di ponente dell’isola, una volta base Loran della Nato, oggi zona militare italiana.
In questi anni è maturata l’idea che in seguito ho condiviso con suor Giuliana e altri pochi amici. L’idea era quella di andare a vedere nelle zone degli sbarchi se ci fossero dei relitti ancora abbastanza interi da poter trasportare. A un certo punto, come in un baleno, abbiamo pensato di partire per Lampedusa, ricordavo che là c’erano il cimitero di questi relitti. Ho subito chiamato il mio amico Francesco Tuccio, un falegname artista che nel periodo degli sbarchi massicci andava ad aiutare i naufraghi insieme a tutta la popolazione, portando loro da mangiare, da bere e coperte. Quando parla del naufragio del 2013 gli vengono le lacrime agli occhi pensando ai bambini morti sulla spiaggia, ai corpi messi nei sacchi neri buttati nell’hangar perché non c’erano bare per tutti. Racconta di essere stato molto male in quel periodo tanto da aver avuto paura di cadere in depressione e non uscirne più. Non riusciva a dormire per le immagini che gli riaffioravano nella notte. Ha incominciato a prendere i legni delle barche e a costruire delle croci, piccole croci da mettere al collo, croci per il cimitero dove venivano seppelliti i corpi, e ad ogni croce piangeva. Mi spiega che però questa è stata la sua salvezza per non perdersi nella depressione. Francesco Tuccio, persona di grande generosità e sensibilità, si è messo subito in azione per aiutarci, ed è stato il primo a credere nell’importanza di questa iniziativa. Il giorno stesso ci ha fatto conoscere un altro pilastro del nostro viaggio: Calogero Fiannaca, 1° Maresciallo di Guardia Costiera che si è speso in prima persona per soccorrere i migranti. Lui non racconta quello che ha fatto e ha visto, lì c’è il suo dolore e il pudore di non domandare nulla. Con Francesco e Calogero andiamo a Ponente nella zona militare che necessita un permesso per entrare. Giuliana, Silvia ed io siamo rimaste lì immobili, mute e sgomente di fronte a queste barche, enormi e piccole, appoggiate su un lato che parevano balene ferite, ma che ancora erano vive ed emanavano i respiri di tutte le persone che avevano trasportato.
Giriamo tra queste carrette del mare, pescherecci, legni sfasciati, bidoni di gasolio abbandonati, funi, giubbotti di salvataggio, effetti personali, motori arrugginiti e cosi via. Come si fa a scegliere una barca? Non la scegli per la bellezza, per i suoi colori o per la sua linea; le barche dei rifugiati hanno un’anima, sono corpi vivi, anche se di legno, e sono loro che scelgono te. E così è stato per la barca 808 arrivata a Lampedusa da Sfax, in Tunisia, il 19 settembre 2017: non ho avuto dubbi, sarebbe stata quella che avremmo messo nel giardino di Mamre. Siamo quindi andate dal terzo pilastro di questo viaggio: Luca Benini, Comandante dell’Agenzia delle Dogane di Lampedusa e Linosa. Incredulo della nostra richiesta, e scettico che l’avremmo portata avanti, ci dice quali documenti dovevamo presentare. Com’era prevedibile, si tratta di una lunga trafila di richieste, di lettere di motivazioni e presentazione dettagliata della nostra associazione alla Procura della Repubblica, presso il tribunale di Agrigento, alla Direzione Regionale della Sicilia e alla Sezione Operativa Territoriale di Lampedusa. E poi l’attesa.
La Provvidenza che copre Mamre con un velo invisibile, ma presente sempre, arriva anche in questo caso: Ferruccio Frigerio, fondatore di SOS Méditerranée Italia, convinto della bontà di questa operazione ci incita a portarla a termine sobbarcandosi lui tutti i costi. Attendiamo. In un primo momento sembra che le notizie siano negative perché non è possibile assegnare le barche dei rifugiati, frutto di reato di “clandestinità”. Per lo Stato sono beni inalienabili che vanno distrutti. Nonostante io abbia chiesto aiuto alla mia amica Silvia Burdese, questore di La Spezia, le speranze cominciavano a scemare. Fino al giorno 17 dicembre 2019 in cui arriva il documento della Dogana di Lampedusa che scrive che la nostra istanza viene accolta positivamente.
Inizia la seconda parte del viaggio in cui parto in camper con il mio cane Miele alla volta di Lampedusa, attraversando tutta l’Italia e arrivando tre giorni dopo su questo atollo in mezzo al Mediterraneo centrale. Un’isola molto più vicina all’Africa, sotto Tunisi, da cui dista 138 km, che alla Sicilia, che è a 215 km di distanza. In questa piattaforma continentale africana sono rimasta per due mesi in attesa dei permessi autostradali, passaggi nave e la scorta prevista per il trasporto su mezzo eccezionale.
Un atto d’amore vale più di qualsiasi economia. Amore per i naufraghi, per chi è arrivato e per chi non ce l’ha fatta, amore per la memoria storica di questo oggetto concreto e vivo che porta il respiro, le paure e le speranze di chi era lì sopra. Amore per una barca che è testimonianza e che con la sua forte presenza sottrae all’oblio, rompe il muro del silenzio, di ciò che non si vuol sentire, rende carne viva ciò che stiamo dicendo e facendo ed è l’incarnazione di tutte le storie passate e presenti, e di quello che continua ad accadere nel mondo, non solo nel Mediterraneo, non solo in Libia, ma nelle sciagurate situazioni nelle quali le persone sono costrette a vivere.
Questa barca è una testimone scomoda che denuncia gli orrori e le dà un valore aggiunto alla storia, in qualche modo la sottrae al tempo presente e riesce a trasformare ciò che accade qui e ora in ciò che può accadere ovunque e che è già accaduto altrove, prima di oggi. Ora, a questa barca giunta senza nome, ho dato il nome Speranza, sia per le 61 persone che hanno sperato di arrivare vive (e ci sono riuscite), sia per tutte le persone che hanno sperato ma che non ce l’hanno fatta. La sua presenza serve a riconoscere noi stessi, a dirci che siamo proprio noi, che nonostante tutto ciò che abbiamo fatto e siamo capaci di fare, siamo ancora umani.
* Psicologa, psicoterapeuta, fondatrice dell’associazione Mamre Onlus.
Posted on: 2020/03/02, by : admin
Era un sogno che però mi sembrava impossibile, non sapevo nemmeno da dove iniziare anche se ero già stata parecchie volte a Lampedusa e avevo visitato il “cimitero delle barche dei migranti”, in realtà una discarica di relitti accatastati nella zona di ponente dell’isola, una volta base Loran della Nato, oggi zona militare italiana.
In questi anni è maturata l’idea che in seguito ho condiviso con suor Giuliana e altri pochi amici. L’idea era quella di andare a vedere nelle zone degli sbarchi se ci fossero dei relitti ancora abbastanza interi da poter trasportare. A un certo punto, come in un baleno, abbiamo pensato di partire per Lampedusa, ricordavo che là c’erano il cimitero di questi relitti. Ho subito chiamato il mio amico Francesco Tuccio, un falegname artista che nel periodo degli sbarchi massicci andava ad aiutare i naufraghi insieme a tutta la popolazione, portando loro da mangiare, da bere e coperte. Quando parla del naufragio del 2013 gli vengono le lacrime agli occhi pensando ai bambini morti sulla spiaggia, ai corpi messi nei sacchi neri buttati nell’hangar perché non c’erano bare per tutti. Racconta di essere stato molto male in quel periodo tanto da aver avuto paura di cadere in depressione e non uscirne più. Non riusciva a dormire per le immagini che gli riaffioravano nella notte. Ha incominciato a prendere i legni delle barche e a costruire delle croci, piccole croci da mettere al collo, croci per il cimitero dove venivano seppelliti i corpi, e ad ogni croce piangeva. Mi spiega che però questa è stata la sua salvezza per non perdersi nella depressione. Francesco Tuccio, persona di grande generosità e sensibilità, si è messo subito in azione per aiutarci, ed è stato il primo a credere nell’importanza di questa iniziativa. Il giorno stesso ci ha fatto conoscere un altro pilastro del nostro viaggio: Calogero Fiannaca, 1° Maresciallo di Guardia Costiera che si è speso in prima persona per soccorrere i migranti. Lui non racconta quello che ha fatto e ha visto, lì c’è il suo dolore e il pudore di non domandare nulla. Con Francesco e Calogero andiamo a Ponente nella zona militare che necessita un permesso per entrare. Giuliana, Silvia ed io siamo rimaste lì immobili, mute e sgomente di fronte a queste barche, enormi e piccole, appoggiate su un lato che parevano balene ferite, ma che ancora erano vive ed emanavano i respiri di tutte le persone che avevano trasportato.
Giriamo tra queste carrette del mare, pescherecci, legni sfasciati, bidoni di gasolio abbandonati, funi, giubbotti di salvataggio, effetti personali, motori arrugginiti e cosi via. Come si fa a scegliere una barca? Non la scegli per la bellezza, per i suoi colori o per la sua linea; le barche dei rifugiati hanno un’anima, sono corpi vivi, anche se di legno, e sono loro che scelgono te. E così è stato per la barca 808 arrivata a Lampedusa da Sfax, in Tunisia, il 19 settembre 2017: non ho avuto dubbi, sarebbe stata quella che avremmo messo nel giardino di Mamre. Siamo quindi andate dal terzo pilastro di questo viaggio: Luca Benini, Comandante dell’Agenzia delle Dogane di Lampedusa e Linosa. Incredulo della nostra richiesta, e scettico che l’avremmo portata avanti, ci dice quali documenti dovevamo presentare. Com’era prevedibile, si tratta di una lunga trafila di richieste, di lettere di motivazioni e presentazione dettagliata della nostra associazione alla Procura della Repubblica, presso il tribunale di Agrigento, alla Direzione Regionale della Sicilia e alla Sezione Operativa Territoriale di Lampedusa. E poi l’attesa.
La Provvidenza che copre Mamre con un velo invisibile, ma presente sempre, arriva anche in questo caso: Ferruccio Frigerio, fondatore di SOS Méditerranée Italia, convinto della bontà di questa operazione ci incita a portarla a termine sobbarcandosi lui tutti i costi. Attendiamo. In un primo momento sembra che le notizie siano negative perché non è possibile assegnare le barche dei rifugiati, frutto di reato di “clandestinità”. Per lo Stato sono beni inalienabili che vanno distrutti. Nonostante io abbia chiesto aiuto alla mia amica Silvia Burdese, questore di La Spezia, le speranze cominciavano a scemare. Fino al giorno 17 dicembre 2019 in cui arriva il documento della Dogana di Lampedusa che scrive che la nostra istanza viene accolta positivamente.
Inizia la seconda parte del viaggio in cui parto in camper con il mio cane Miele alla volta di Lampedusa, attraversando tutta l’Italia e arrivando tre giorni dopo su questo atollo in mezzo al Mediterraneo centrale. Un’isola molto più vicina all’Africa, sotto Tunisi, da cui dista 138 km, che alla Sicilia, che è a 215 km di distanza. In questa piattaforma continentale africana sono rimasta per due mesi in attesa dei permessi autostradali, passaggi nave e la scorta prevista per il trasporto su mezzo eccezionale.
Un atto d’amore vale più di qualsiasi economia. Amore per i naufraghi, per chi è arrivato e per chi non ce l’ha fatta, amore per la memoria storica di questo oggetto concreto e vivo che porta il respiro, le paure e le speranze di chi era lì sopra. Amore per una barca che è testimonianza e che con la sua forte presenza sottrae all’oblio, rompe il muro del silenzio, di ciò che non si vuol sentire, rende carne viva ciò che stiamo dicendo e facendo ed è l’incarnazione di tutte le storie passate e presenti, e di quello che continua ad accadere nel mondo, non solo nel Mediterraneo, non solo in Libia, ma nelle sciagurate situazioni nelle quali le persone sono costrette a vivere.
Questa barca è una testimone scomoda che denuncia gli orrori e le dà un valore aggiunto alla storia, in qualche modo la sottrae al tempo presente e riesce a trasformare ciò che accade qui e ora in ciò che può accadere ovunque e che è già accaduto altrove, prima di oggi. Ora, a questa barca giunta senza nome, ho dato il nome Speranza, sia per le 61 persone che hanno sperato di arrivare vive (e ci sono riuscite), sia per tutte le persone che hanno sperato ma che non ce l’hanno fatta. La sua presenza serve a riconoscere noi stessi, a dirci che siamo proprio noi, che nonostante tutto ciò che abbiamo fatto e siamo capaci di fare, siamo ancora umani.
* Psicologa, psicoterapeuta, fondatrice dell’associazione Mamre Onlus.
Posted on: 2020/03/02, by : admin