Una rivoluzione copernicana anche per le carceri

di Michele Ruggiero|

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L’opinione pubblica continua ad interrogarsi sul pestaggio avvenuto il 6 aprile del 2020 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. E si interroga se non si sia ormai al punto di non ritorno per dare una netta sterzata all’impianto carcerario del Paese. Le immagini di violenza, di prevaricazione e di umiliazione subite dai detenuti sono, infatti, una traccia indelebile nella coscienza di chi crede nella Costituzione. E il comportamento della polizia penitenziaria è diventato il negativo distorto della fotografia che lo Stato di diritto ha il dovere di diffondere tra i cittadini che credono nella Costituzione. Il tutto è aggravato dalla percezione di non essere dinanzi a un grave, ma singolo episodio, quanto all’ennesimo effetto di un sistema che non è più in grado di correggersi e che procede zigzagando con l’ago della bussola smagnetizzato, violando arbitrariamente nel quotidiano regole e normative che si frappongono alla visione individuale della gestione carceraria. Ma non solo, perché la questione morale (e penale) non riguarda soltanto lo scenario dei penitenziari, ma l’intero tessuto sociale del nostro Paese che dev’essere bonificato con lo stesso rigore con cui lo si vaccina per contrastare l’epidemia.

Dallo scoppio del caso, l’informazione, che finora non ha ceduto il passo a ricostruzioni di comodo o diplomatiche, ha riportato a galla quello che appare uno dei temi più seri di ogni interstizio della vita sociale e politica del Paese: la selezione e il reclutamento del personale, fattori costantemente evocati, ma perennemente lasciati in sospeso alla domanda “come li si modifica?”. Del resto, se selezione e reclutamento sono corni di un problema fondamentali per le forze di polizia, nella polizia penitenziaria dovrebbero diventare dirimenti per la particolarità della professione. Se non fosse che le attitudini richieste al personale delle carceri non sempre sono direttamente proporzionali e adeguate alle qualità e capacità pretese dal ruolo che nella scala dei valori non scritta della pubblica sicurezza è considerato l’ultimo posto ambito.

Le ragioni non sono certo misteriose. Il carcere è comunque reclusione per due, indipendentemente da quale parte si sta delle sbarre: la privazione della libertà finisce per assorbirla anche chi è libero, che a sua volta diventa prigioniero di gesti e parole predominanti nell’ambiente, che per caratteristiche e limiti raramente mira al recupero sociale del detenuto. Il carcere è un microcosmo (sovraffollato) che per sua natura (contatti inesistenti con la realtà esterna) tende sia fisicamente, sia psichicamente a restringersi, anziché allargarsi; di conseguenza spiana la strada a deformare i punti critici di coesistenza tra i due gruppi (agenti e detenuti) e a trasformare le tensioni e le contraddizioni in una pluralità di agiti più che in riflessioni razionali. L’azione prevale sul pensiero e nell’azione la violenza può diventare una delle “stanze di compensazione” per reggere alla compressione che schiaccia i due gruppi. Ma la posizione dominante rimane sempre quella di chi nel carcere dispone delle leve del potere o di chi gode di speciali protezioni (camorristi “intoccabili”, come a Santa Maria Capua Vetere)

Non è casuale dunque che direttori illuminati abbiano chiesto o chiedano di adibire (episodicamente) il personale della polizia penitenziaria ad altri impieghi di ordine pubblico, vuoi per favorire il contatto con l’esterno sul piano professionale, vuoi per ridurre i livelli di frustrazione che quel tipo di microcosmo genera. Il che ci porta a chiedere se per il regime carcerario non siano maturi i tempi per una sperimentazione di una sorta di rivoluzione copernicana che si giovi dell’introduzione di figure diverse da quelle degli agenti, di un personale con una preparazione diversa anche sotto il profilo culturale e di una riforma dell’attuale amministrazione.




Posted on: 2021/07/06, by :