Usa: oggi si vieta l’aborto, domani l’essere donna

di Chiara Laura Riccardo|

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Il 24 giugno la Corte Suprema degli Stati Uniti ha riconosciuto ai singoli Stati del paese la possibilità di vietare l’aborto all’interno della propria giurisdizione. Ebbene, nel 2022, 49 anni dopo la sentenza Roe v. Wade del 1973, con cui la stessa Corte Suprema aveva legalizzato l’aborto negli Usa rendendolo un diritto riconosciuto dalla Costituzione, sarà consentito agli Stati di vietare le interruzioni di gravidanza volontarie prima delle 12 settimane di gestazione.

Secondo il Guttmacher Institute, un’organizzazione di ricerca americana, che sostiene i diritti all’aborto, sarebbero circa già 20 gli Stati americani che si stanno muovendo per limitare alle donne l’accesso all’aborto. La notizia è apparsa come un fulmine a ciel sereno, ma in realtà da molto tempo le lobby cattoliche1 e le destre americane avevano avviato un processo politico-sociale per favorire la negazione di questo diritto, facendosi forza anche con i numerosi contenuti anti-aborto che negli ultimi anni popolavano i social a livello globale.

Le analisi del Guttmacher Institute

Social che, pare si stiano adeguano velocemente alla sentenza della Corte Suprema, cancellando tutti quei post che, poche ore dopo la sentenza, erano stati scritti con l’intento di offrire aiuto alle donne che vivono in quegli Stati conservatori dove l’aborto sta divenendo illegale (da Facebook, social a cui si rivolgono le donne sopra i trent’anni, a Instagram, quello delle più giovani).

Se osserviamo i dati riportati dal Guttmacher Institute, si evince che le donne americane che ricorrono all’interruzione di gravidanza vivono nel 49% dei casi sotto alla soglia di povertà, appartengono con più frequenza a minoranze, hanno spesso già un figlio, nel 60 per cento dei casi sono under 30 e nel 12 per cento sono adolescenti.

Si susseguono i dibattiti e gli attacchi sul tema tra repubblicani e democratici americani. Da una parte chi come il leader dei repubblicani in Senato, Mitch McConnell, sostiene che questa sia “una storica vittoria per la costituzione e la società” e una “storica sentenza che salva vite umane”, dall’altra chi, tra i democratici, come Nancy Pelosi, ritiene questa decisione sia “un insulto per le donne”. Parallelamente la vicepresidente Kamala Harris afferma che “la teoria legale rivendicata dalla Corte Suprema per ribaltare la Roe v. Wade mette a rischio anche altri diritti” e che “la decisione dei saggi sull’aborto non chiude la partita e gli elettori avranno l’ultima parola”.

Le riflessioni della politologa Carole Pateman

In questa complessa cornice, però, per aprire le riflessioni, è utile ricordare che la Piattaforma d’azione approvata nel 1995 dalla Conferenza di Pechino organizzata dalle Nazioni Unite, quarta di una serie di conferenze mondiali sulle donne, afferma nel suo testo politico, tra i più rilevanti e consultati di tutto il mondo, che “i diritti umani delle donne includono il loro diritto ad avere controllo e decidere liberamente e responsabilmente su questioni relative alla loro sessualità, inclusa la salute sessuale e riproduttiva, senza coercizione, discriminazione e violenza”.

Parlare di diritti sessuali e riproduttivi e di diritto all’aborto, significa anche far sì che ogni persona possa essere messa nelle condizioni di prendere decisioni autonome rispetto al proprio corpo, ottenere informazioni accurate su questa tematica, accedere ai servizi di salute sessuale e riproduttiva (compresa la contraccezione), scegliere se, quando e chi sposare e decidere se e quanti figli avere.

Nonostante le numerose iniziative e politiche a sostegno dell’equità tra i generi, ancora oggi il dibattito sulla salute sessuale e riproduttiva delle donne, resta ancorato alla questione riguardante il cosa una donna possa o non possa fare, perpetuando uno scenario di costante minorità.

La politologa britannica, Carole Pateman, nel suo saggio “Il contratto sessuale” pubblicato nel 1988, illustra sapientemente come “le limitazioni ai diritti delle donne che passano per il controllo del loro corpo, siano al centro del vigente modello di contratto sociale” dove i “diritti fondamentali contengono nel loro patrimonio genetico l’esclusione delle donne: sono, in effetti, diritti modellati sulla nozione settecentesca del cittadino: maschio, borghese” (era il 1988, ma tutto ciò è ancora estremamente attuale).

La geografia delle leggi sull’aborto

I media internazionali, pur concentrandosi prevalentemente sugli Stati Uniti, in questi ultimi giorni stanno dirigendo l’attenzione anche all’Europa per capire cosa accadrà in tema di aborto. Nell’Atlante delle politiche europee sull’aborto, elaborato nel 2021 dall’European Parliamentary Forum, si afferma che “l’Europa non è così progressista come potrebbe sembrare”. Infatti, solo 21 sono i Paesi i cui sistemi sanitari nazionali trattano l’aborto come qualsiasi altra prestazione medica, mentre in ben 31 Paesi l’aborto non è incluso nella copertura del sistema sanitario nazionale e in altri 16 l’aborto viene regolato dal codice penale e trattato come reato.

Tra i paesi considerati peggiori troviamo Malta, Liechtenstein, Monaco, Polonia, Repubblica di San Marino, Ungheria, Slovacchia e Turchia. Mentre i più virtuosi, che occupano i primi quattro posti della classifica, sono Svezia, Islanda, Regno Unito e Olanda. Nella graduatoria l’Italia occupa il sedicesimo posto, subito dopo la Macedonia del Nord, la Grecia e la Spagna, venendo considerato uno dei paesi più progressisti sul tema, ma comunque con una possibilità di accesso all’aborto ancora difficoltoso a causa dell’alto tasso di ginecologi obiettori di coscienza (oltre il 70per cento) e di strutture ospedaliere prive di reparti dedicati alla legge 194 o carenti di personale (oltre il 30 per cento).

L’interrogativo ora è: alla luce di quanto accaduto negli Stati Uniti, in Italia cosa potrebbe accadere? Dal 1978 in Italia, grazie alla Legge 1942, una donna può richiedere l’interruzione volontaria di gravidanza entro i primi 90 giorni di gestazione per motivi di salute, economici, sociali o familiari. Tale diritto e, dunque, tale legge, per essere aboliti, dovrebbero passare tramite un referendum abrogativo come previsto dall’art. 75 della Costituzione e, se guardiamo al passato, già nel 1981 gli italiani respinsero due referendum abrogativi che volevano modificare la legge 194, e successivamente, altre iniziative si accesero, sia da parte di movimenti politici che di organizzazioni pro-life, senza però mai giungere a compimento.

Percentuali d’interruzione della gravidanza

Se poi guardiamo ai dati italiani relativi alle interruzioni volontarie di gravidanza (IVG), poche settimane fa, l’Istituto Superiore di Sanità, ha pubblicato i dati definitivi relativi al 2020 sull’attuazione della legge 194/78, riportando come nell’anno siano state notificate 66.413 IVG, pari a un tasso di abortività di 5,4 IVG ogni 1000 donne tra 15 e 49 anni, uno tra i più bassi a livello globale.

Tasso che, se paragonato al 1983, anno di massima incidenza del fenomeno, ha visto una riduzione degli aborti del 71%. Ciò a significare che la legalizzazione dell’aborto, l’accesso alla contraccezione e il supporto dei professionisti socio-sanitari dei Consultori familiari e dei presidi sanitari che effettuano le IVG hanno permesso alle donne italiane di prevenire le gravidanze indesiderate riducendo notevolmente il ricorso all’aborto volontario, secondo gli auspici della legge 194.

Certamente, aldilà dei dati statistici, il tema del diritto all’aborto contempla aspetti sanitari, etici, di uguaglianza di genere, sociali e politici e, chi legifera, non può non tenere in considerazione quelle che sono le conseguenze dirette e indirette di maggiori restrizioni al diritto di accesso all’aborto.

La letteratura dimostra, infatti, che numerosi sono gli effetti secondari conseguenti al portare a termine una gravidanza indesiderata. In primis sulla salute mentale della donna e di conseguenza sul benessere e lo sviluppo del bambino e poi sulle possibilità di contrastare la violenza di genere, sia all’interno che all’esterno della famiglia (all’interno di una coppia dove la donna subisce violenza, l’arrivo di un figlio rende più difficile l’abbandono della relazione). Insomma, continuare nella battaglia per la legalizzazione dell’aborto significa salvare le vita di quelle donne che abortirebbero lo stesso, rischiando però la vita con procedure clandestine e poco sicure.

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1“Di giorno storico” parla la Conferenza episcopale cattolica nazionale (Usccb) che, in una dichiarazione a firma del presidente, l’arcivescovo José H. Gomez di Los Angeles, e dell’arcivescovo William E. Lori di Baltimora, presidente della Commissione per le attività, afferma: “Per quasi cinquant’anni, l’America ha applicato una legge ingiusto che ha permesso ad alcuni di decidere se altri possono vivere o morire; questo politica ha portato alla morte di decine di milioni di nascitura, generazioni a cui è stato negato il diritto di nascere”. Il pensiero dei presuli è andato, poi, “a tutti i nascituri cui è stata tolta la vita dal 1973”, ma anche a “tutte le donne e gli uomini che hanno sofferto a causa dell’aborto” in https://www.osservatoreromano.va/it/pdfreader.html/quo/2022/06/QUO_2022_144_2606.pdf.html.
2Legge 194/1978 “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza”. L’interruzione volontaria di gravidanza è praticata normalmente entro i primi novanta giorni di gestazione, tuttavia l’articolo 6 della Legge 194 prevede che essa possa essere praticata anche dopo tale termine (aborto terapeutico): «a) quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna; b) quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna.».




Posted on: 2022/07/01, by :